The Age of Decadence

Il GdR del ‘purista’ Vince D. Weller arriva, dopo una lunghissima gestazione, sui nostri hard disk. Il risultato è perfino peggiore di quel che ci si poteva aspettare: The Age of Decadence è monolitico e iper-regolato, e frustrare il giocatore è il suo obiettivo esplicito e dichiarato.

[articolo originariamente pubblicato il 26 novembre 2015]

1. Chi è il più fedele alla linea?
Il gioco di ruolo è, nell’ambito dell’intrattenimento digitale, uno dei settori più ‘caldi’ dal punto di vista del confronto tra gli appassionati: i forum e i gruppi di discussione sono colmi di dibattiti infuocati, che puntualmente scattano ogni qual volta un titolo importante arriva sugli scaffali. Alle consuete richieste di aiuto per proseguire o di suggerimenti tecnici, si sostituiscono spesso diatribe sui massimi sistemi: il sistema di dialogo è valido? Com’è la qualità delle scelte? La scrittura è di buon livello? Il confronto si sposta molto spesso dal dettaglio all’insieme, sfociando infine nella domanda che in genere segna la degenerazione del dibattito: ma il gioco di cui stiamo parlando sarà *veramente* un GdR? Il fatto che così spesso ci si interroghi su questo aspetto è singolare: in nessun forum dedicato agli sparatutto ci si interroga se un certo gioco è ‘davvero’ uno sparatutto, e in nessuna discussione relativa a una avventura grafica ci si scanna sul fatto che il gioco in oggetto sia o non sia una avventura grafica. La motivazione dietro il delirio è in realtà piuttosto evidente: tra gli appassionati, non c’è un’idea chiara e univoca su cosa sia un gioco di ruolo digitale. Ce ne sono tante, e spesso in conflitto tra loro. Le opinioni differenti sono, da sempre, il sale del confronto e del dibattito: la faccenda, quindi, non rappresenta, in sé, un problema. Lo diventa, però, nel momento in cui una ‘fazione’ si auto-convince di essere l’unica nel giusto. Le discussioni sui GdR digitali sono a rischio flame non perché vi siano opinioni diverse, ma perché alcuni sono convinti che le loro opinioni siano fatti incontestabili.
Nel corso degli ultimi anni, un sito internet è diventato la ‘sede’ virtuale di coloro che, appunto, credono di possedere la verità assoluta su come deve essere o non essere un GdR digitale: si tratta del sito RPGCodex.net. Uno dei suoi più assidui frequentatori è un appassionato inizialmente noto con lo pseudonimo di “Vault Dweller”, evidentemente ispirato alla serie Fallout, successivamente mutato in “Vince D. Weller”. Nell’ormai lontano 2004, Weller annuncia di aver cominciato a realizzare egli stesso un GdR. Si sarebbe trattato di un gioco basato, ovviamente, sugli assiomi portati avanti dal Codex e dai suoi adepti: avrebbe avuto una trama forte, molti bivi morali, un complicato regolamento basato su caratteristiche e abilità tutte ugualmente utili, e così via. Fin da subito si è anche saputo il nome del progetto, nonché la sua ambientazione: The Age of Decadence sarebbe stato un titolo post-apocalittico, ma collocato dopo il crollo non di una civiltà simil-contemporanea bensì di un impero antico modellato sull’impero romano. Lo sviluppo è andato molto per le lunghe e in alcuni momenti le notizie sono state talmente scarse da far pensare che il gioco non sarebbe mai arrivato a compimento. Weller invece ce l’ha fatta: dopo aver pubblicato svariate versioni alfa e beta, The Age of Decadence è arrivato nella sua incarnazione definitiva il 14 ottobre 2015, dopo ben 11 anni di sviluppo. Sulla carta, le promesse sono state mantenute: ma in termini talmente estremi da causare perplessità a chiunque non sia ‘adepto’ come il suo creatore. Per certi versi, The Age of Decadence è una benedizione: si tratta della dimostrazione perfetta di quanto letale possa essere l’ideologia quando si stacca completamente dall’immanenza.

2. Panoramica e premesse narrative
The Age of Decadence è ambientato in un mondo fantasy di ispirazione storica e a bassissima intensità magica: come già detto, la fonte più evidente è la storia romana del tardo impero, citata non solo nei nomi latineggianti ma anche nell’architettura e nello stile di armi e armature. Gran parte dell’avventura si svolge tra le mura di tre città (Teron, Maadoran, Ganezzar), ciascuna retta da una casata nobiliare: ma non mancano momenti in cui si esplorano ambientazioni lontane dagli insediamenti umani. I luoghi sono collegati astrattamente tramite una mappa del mondo simile a quella utilizzata in Baldur’s Gate, ma è accessibile fin da subito il viaggio rapido anche tra punti fissi collocati all’interno della medesima ambientazione.
Il giocatore controlla il suo personaggio con una classica visuale isometrica dall’alto, liberamente ruotabile e zoomabile. Il clic destro gestisce il movimento, che può essere una lenta camminata o una corsa veloce, mentre il clic sinistro attiva i punti interagibili quali porte, passaggi o personaggi non giocanti. Il combattimento è a turni, mentre il dialogo avviene in una schermata apposita (completamente statica) ed è gestito tramite il consueto sistema della risposta multipla. Non mancano, naturalmente, apposite schermate per il controllo dell’inventario, del diario, della mappa e delle statistiche del personaggio.
Il gioco implementa vari incipit differenti, dipendenti dal background (ossia, come vedremo, dalla classe) del personaggio giocante. The Age of Decadence ci dà la possibilità di entrare in contatto con sette diverse fazioni: oltre alle tre casate nobiliari a cui si accennava sopra, vi sono la Imperial Guard, cioè i soldati imperiali, il Commercium, ossia la gilda dei mercanti, i Boatmen of Styx, vale a dire gli assassini, e infine i Forty Thieves, cioè la gilda dei ladri. I differenti background, come avremo modo di vedere, ci indirizzano naturalmente verso una o più fazioni: ma le occasioni per fare il doppio gioco abbondano e il protagonista più individualista può, con notevole impegno, riuscire a terminare l’avventura senza aderire ad alcuno schieramento.

3. Caratteristiche e abilità, combattimento e dialogo
Il problema maggiore di The Age of Decadence emerge quando si spiegano le modalità di gestione del personaggio giocante, che è definito sulla base di sei caratteristiche e ventitrè abilità. Le caratteristiche (Forza, Destrezza, Costituzione, Percezione, Intelligenza, Carisma) rimangono fisse per tutta la partita, mentre le abilità, suddivise tra militari e ‘civili’, possono essere migliorate nel corso del gioco. Non esistono punti esperienza: il protagonista migliora ottenendo punti abilità che vengono assegnati in quantità prestabilita col completamento delle missioni o in seguito a eventi particolari. Esistono sia punti abilità generici, assegnabili all’ambito militare come a quello civile, ma anche punti distribuibili solo all’interno di uno dei due sotto-insiemi. A volte, le abilità migliorano ‘automaticamente’ anche compiendo determinate azioni o parlando con il giusto personaggio non giocante. Va sottolineato che l’addestramento in alcune abilità ha come positivo effetto collaterale il miglioramento in altre abilità: per esempio, se si migliora nell’uso dell’arco si otterranno benefici anche nell’uso della balestra.
In fase di creazione del personaggio, il giocatore deve anche scegliere un determinato background, che corrisponde più o meno alla “classe”: ne esistono otto e influenzano non solo le abilità possedute, ma anche la reputazione con le fazioni. Mentre alcuni background sono direttamente collegati a una fazione, altri permettono un posizionamento (relativamente) più libero: aderire a una fazione, peraltro, rappresenta il modo più semplice per avanzare nel gioco e anche per acquisire una determinata prospettiva sugli eventi narrati, prospettiva che può essere facilmente ‘rovesciata’ riprovando il gioco con un personaggio differente.
Le abilità collegate alle armi trovano il loro uso, ovviamente, soprattutto durante i combattimenti. Gli scontri sono, come abbiamo già detto, a turni, e sono gestiti tramite il classico sistema dei punti azione: ciascun gesto, da spostarsi sulle varie ‘caselle’ del campo di battaglia a sferrare un colpo a utilizzare una pozione, costa un certo numero di punti azione, che si ricaricano nel turno successivo. Il sistema è molto approfondito e consente, per esempio, di sferrare colpi veloci o caricati, e perfino di mirare a una parte del corpo specifica.
Caratteristiche e abilità entrano spesso in gioco anche nei dialoghi, che rappresentano la modalità principale (se non unica) tramite cui il gioco ‘rappresenta’ gli eventi narrati, anche quelli che avvengono al di fuori della pura e semplice conversazione. Nella finestra di dialogo leggeremo dunque lunghe descrizioni di ambienti, dettagliati resoconti di azioni compiute davanti agli occhi del protagonista, nonché l’esito di imprese quali il furto o la fuga rocambolesca da una situazione pericolosa. La scrittura di The Age of Decadence è piana e semplice, a tratti al limite dell’anonimo: i temi affrontati, purtuttavia, sono interessanti e il più delle volte sufficienti a tenere desta l’attenzione del fruitore. Forse un maggior lavoro di sintesi avrebbe giovato, soprattutto nelle occasioni in cui viene raccontato, con dovizia di particolari financo eccessiva, un qualche episodio della storia passata.

4. Flessibile come il granito
The Age of Decadence fa, prevedibilmente, un uso amplissimo dei cosiddetti stat-check: ogni dialogo di una qualche importanza ne contempla almeno uno, e il gioco non manca di segnalare la caratteristica o l’abilità che entra in gioco e che può consentirci di proseguire. Il livello di abilità richiesto è quasi subito piuttosto elevato, e il personaggio che non lo soddisfa dovrà interrompere la missione in oggetto e tornare in seguito, con un livello di abilità più alto. Tutto questo non rappresenterebbe un problema se il gioco fosse sufficientemente flessibile: se, cioè, mi permettesse di sviluppare il mio personaggio *come voglio io*, lasciandomi la possibilità di accedere o meno a determinate strade ma garantendomi comunque una qualche via d’uscita.
Purtroppo, il concetto di “flessibilità” qui non si sa nemmeno dove stia di casa: The Age of Decadence è costruito su un’intelaiatura rigidissima, che non concede nulla all’utente ma che anzi gli richiede di inserirsi alla perfezione al suo interno, pena l’impossibilità di utilizzare il prodotto. Ciascun archetipo di personaggio ha, davanti a sé, una campagna già idealmente prefissata fin nei dettagli, dalla quale è complicatissimo deragliare: il compito del giocatore non è dar vita a un personaggio e farlo vivere nel mondo di gioco, bensì costruire *alla perfezione* un determinato archetipo e scoprire qual è il percorso che il programmatore ha previsto per lui. A rendere anche frustrante un’attività che di suo sarebbe ‘solo’ sterile e noiosa è il fatto che questo percorso non è in alcun modo evidente, né lo sono le abilità necessarie per portarlo a compimento.

5. Il contrario del ruolo
In forza di quanto abbiamo appena spiegato, ciascuna sessione di gioco diventa, in The Age of Decadence, una specie di vacuo rompicapo, che nulla ha a che fare con l’interpretazione. Il loop si concretizza più o meno in quanto segue: accetto una missione; provo a completarla con le abilità che il mio personaggio possiede in quel momento; se non ce la faccio, utilizzo i punti abilità ottenuti in precedenza (che non vanno *mai* spesi liberamente e spensieratamente: dio ce ne scampi) per alzare una o più abilità segnalate durante i dialoghi; riprovo a risolvere la missione; se ce la faccio bene, sennò provo a farne un’altra. Ma attenzione: se i punti abilità vengono eccessivamente ‘dispersi’ (dio ce ne scampi), il personaggio a un certo punto non sarà più in grado di proseguire in alcuna missione; d’altra parte, potrebbe non essere capace di andare avanti anche perché abbiamo *sbagliato* a crearlo all’inizio della partita.
L’obiettivo principale di The Age of Decadence sembra essere, senza voler esagerare, precisamente quello di punire il giocatore per i suoi errori. Eppure quasi tutti i più grandi esponenti del GdR digitale passato e presente mettono l’accento, in fase di spiegazione delle meccaniche, su un concetto antitetico a quello su cui si basa la fatica di Weller: ci può essere un personaggio che fa meglio di un altro, ma nessun personaggio sarà mai completamente sbagliato, perché con tutti sarà possibile, in un modo o nell’altro, completare la partita. D’altra parte, l’interpretazione è il concetto più lontano possibile dal meccanicismo tipico dell’enigmistica: interpretare è un hobby che richiede la partecipazione dell’utente in senso estetico, non in senso tecnico o meccanico. In altre parole: lo scopo di un buon GdR non deve essere quello di “trovare la soluzione”, bensì quello di vivere un’avventura interessante attraverso un personaggio plasmato in libertà.
Nei dibattiti sui forum, Weller rigetta queste critiche affermando che era sua intenzione creare un gioco “difficile”, anzi un gioco che richiedesse molti tentativi, perché, parole sue, “in my opinion a combat system where you can beat fights on the first try isn’t worth playing” (qui si riferiva al combattimento, ma il concetto si può estendere a tutti i comparti del gioco). Posto che noi non siamo per nulla d’accordo e anzi pensiamo che l’idea di divertimento sottesa a questo concetto sia ben bizzarra, quel che ci preme sottolineare è che The Age of Decadence non è per nulla “difficile”. È difficile un gioco che richieda l’utilizzo di tutte le informazioni in nostro possesso per venire a capo di un determinato problema: ma qui non c’è niente di tutto ciò. Qui a mancare sono le informazioni, o per meglio dire le risorse per risolvere i problemi: quindi si va per tentativi o si seguono gli *ordini* dati dal gioco nel momento in cui ci segnala che dobbiamo alzare questa o quest’altra abilità. The Age of Decadence non è un gioco difficile, è un gioco *stupido*. Forse è, dal punto di vista delle regole e delle loro implementazioni, il gioco più stupido che ci sia mai capitato di provare.

6. Grafica e sonoro
The Age of Decadence è basato sul motore grafico Torque 3D, creato nel lontanissimo 2001 per lo sparatutto Tribes 2. Naturalmente qualunque virtuosismo ‘contemporaneo’ è bandito, e in generale la direzione artistica appare assai più riuscita negli artwork che non nelle schermate di gioco, piuttosto blande e appesantite da una scelta cromatica eccessivamente uniforme, che talvolta rende complicato anche solo distinguere i personaggi dai fondali.
Ma l’elemento che va sottolineato è, a nostro avviso, non tanto la debolezza del sistema grafico quanto la sua sostanziale inutilità. Il gioco di Weller non utilizza in alcun modo l’interfaccia grafica per veicolare informazioni o atmosfere, se non durante il combattimento: tutto il resto è descritto tramite testo nella schermata di dialogo. A rendere evidente questo aspetto è il fatto che nel risolvere una missione possiamo decidere, al termine di ciascun dialogo, di ‘saltare’ immediatamente al successivo, anche se si svolge in un luogo lontanissimo da quello in cui si trova il personaggio in quel momento: in altre parole, è il gioco stesso a suggerirci di saltare l’inutile tedio rappresentato dall’atto di muovere il nostro avatar nel mondo di gioco. Ma se è così, non si capisce perché l’autore non abbia creato un libro interattivo anziché un videogioco.
Il commento sonoro è, dal canto suo, adeguatamente solenne e maestoso. Naturalmente, il gioco è accompagnato solo da musiche ed effetti sonori nel combattimento: nessun dialogo è parlato.

7. Conclusioni
Giudicare un prodotto come The Age of Decadence non è semplice, perché non si tratta di un gioco realizzato per soddisfare una qualche esigenza o per accumulare denaro: si tratta, piuttosto, di una operazione di pura e semplice affermazione di un principio. Semplificando, potremmo dire che il principio è il seguente: il gioco di ruolo digitale è un gioco dove ci sono tante abilità che influenzano combattimenti e dialoghi e tante scelte con relative conseguenze. Il problema che risulta evidente quando si maneggia il prodotto finito è quello che spesso si incontra al cospetto delle operazioni puramente ideologiche: il principio ha finito col travolgere l’opera, assorbendone le componenti dentro un esasperato meccanicismo, in forza del quale per fare ogni passo occorre un certo livello in una certa abilità, e in forza del quale a ogni minimo passo falso corrisponde un game over.
Vogliamo essere diretti e sinceri: solitamente finiamo un gioco prima di recensirlo, ma in questo caso abbiamo deciso che dieci ore di sofferenza fossero sufficienti e abbiamo interrotto la partita, senza nemmeno toccare comparti quali il crafting o l’alchimia, che pure sembrano curati e approfonditi. Certo, in apparenza la comunità abbonda di appassionati che apprezzano il lavoro svolto da Weller: in molti probabilmente dicono di apprezzarlo per pure esigenze dialettiche, ma non mancano genuini fan esaltati da The Age of Decadence. Immaginiamo che molto dipenda dal grado di apprezzamento della frustrazione: se appartenete a quella percentuale di giocatori che ama provare un nuovo gioco scegliendo fin da subito la massima difficoltà, se anche voi pensate che un buon gioco debba imporre al fruitore di provare più volte ogni singolo passaggio per poter proseguire, forse la fatica del buon Weller può darvi qualche gioia. Attenzione però a non cadere nel tranello in cui spesso cadono gli adepti delle fedi religiose: auto-convincersi che la libertà sia essere liberi di scegliere ciò che qualcun altro ha già scelto per noi.

Tre pregi di The Age of Decadence
Tre difetti di The Age of Decadence
Tematiche interessanti
I meccanismi di gioco non consentono alcuna libertà interpretativa
Ambientazione originale
Incredibilmente punitivo
Molto rigiocabile
Sommamente frustrante

2 thoughts on “The Age of Decadence”

  1. La cosa assurda è che Weller si è (di nome e di fatto) ispirato ai primi due Fallout, giochi dove la libertà di scelta era tale da permettere al giocatore di completare i due titoli con la violenza, piuttosto che con la diplomazia o il sotterfugio, consentendogli di decidere quale filosofia di gioco intraprendere, oltre che come livellare il proprio personaggio.
    Qui non c’è nessuna libertà : o costruisci il tuo alter ego esattamente come ha stabilito Weller, oppure prima o poi rimani bloccato perchè ti mancano le abilità guste per andare avanti. E partono bestemmie, frustrazione e disinstallazione.
    Ancora più assurdo è che Weller e i suoi accoliti del Codex non si sono mai resi conto di quanto fuorviata sia la loro concezione di gioco di ruolo duro e puro, fino a sfociare in un fanatismo che ha punte di sadomasochismo.
    Se affermi che un gioco non è degno di tale nome se vinci i combattimenti al primo tentativo, non hai capito nulla. Non ti rendi conto che ci sono migliaia di videogiocatori con migliaia di concezioni diverse del concetto di “giusto livello di difficoltà”. E se gli offri solo in livello di difficoltà altissimo che porta a un’esperienza frustrante e tediosa, allora è inevitabile che la maggior parte di loro rifiuteranno il tuo gioco.
    Secondo me, tra i giuggioloni che vogliono tutti gli aiuti per vincere facile, e i fanatici dell’autopunizione come Weller, si può tranquillamente un compromesso a metà strada, mantenendo un accettabile livello di sfida senza sacrificare il divertimento e soprattutto la libertà di scelta.

    1. Mosè Viero

      Anche TAoD può essere completato senza combattere o solo col sotterfugio, ma per farcela devi creare esattamente il tipo di personaggio ‘giusto’ e non puoi permetterti nessuna libertà nel distribuire i punti abilità. L’idea che governa questo approccio è che il personaggio va interpretato con coerenza: se sono un ladro, devo fare il ladro. Io non condivido questa impostazione, ma se anche la condividessi comunque TAoD mi risulterebbe antipatico, perché è troppo rigido nell’implementarla. L’equivoco è che non esiste un modo universale e comunemente accettato e conosciuto su cosa voglia dire “fare il guerriero” o “fare il ladro”: può essere interessante premiare l’interpretazione coerente, ma un minimo di flessibilità ci deve essere. Altrimenti non stiamo neanche parlando di un gioco, ma solo di una serie di azioni obbligate in cui l’unico input dell’utente è la loro scoperta ed esecuzione. Un po’ poco, per un gioco che millanta chissà quale “libertà”.

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