Pillars of Eternity

Il successore spirituale di Baldur’s Gate, realizzato da Obsidian e finanziato tramite la piattaforma di crowdfunding Kickstarter, è sicuramente un prodotto degno di nota, anche se forse non rappresenta il capolavoro che molti stavano aspettando.

[articolo originariamente pubblicato il 28 giugno 2015]

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Esempio di gioco
Il nostro parere
La nostra collezione

1. Obsidian e i suoi fan
I sistemi di finanziamento dal basso ormai non rappresentano più una novità e sono considerati in un certo senso parte del mercato in moltissimi campi: dalla musica alla letteratura, fino ovviamente all’intrattenimento digitale. Ma quando nel settembre 2012 una casa di sviluppo radicata e ammirata come Obsidian annuncia di voler avvalersi di Kickstarter, forse la più nota piattaforma di crowdfunding, per realizzare il suo nuovo GdR tripla A, i fan e la critica entrano in fibrillazione. Le premesse sembrano fatte apposta per accontentare gli appassionati più rigorosi, in particolare quelli che identificano i publisher come responsabili di tutti i mali (una tesi che spesso assolve gli autori con disinvoltura financo eccessiva): piena libertà agli sviluppatori di tornare ai bei tempi andati, possibilità di affrontare tematiche scabrose senza temere censure, assoluta indipendenza da tempistiche eccessivamente costrittive. Il messaggio arriva alle orecchie giuste: il finanziamento richiesto, 1,1 milioni di dollari, viene raggiunto in ventiquattrore. Per attirare ancora più sostegno, gli sviluppatori inanellano nuove caratteristiche e funzioni di gioco, da aggiungere al raggiungimento di determinate soglie di finanziamento: nuove classi giocabili, una fortezza personalizzabile per il protagonista, un mega dungeon tutto da esplorare. Alla fine Project Eternity, questo è il nome in codice del progetto durante la raccolta fondi, ottiene più di quattro milioni di dollari, risultando uno dei giochi più finanziati in assoluto di tutta la storia di Kickstarter.
I mesi che trascorrono dalla chiusura trionfale della campagna di raccolta fondi alla pubblicazione del titolo sono costellati da continui aggiornamenti sullo stato della realizzazione, scritti dai vari membri di Obsidian (tra cui, ricordiamo, sono alcuni pezzi grossissimi della storia del nostro hobby, come Josh Sawyer, Tim Cain, Feargus Urquhart, Chris Avellone, anche se qualche settimana fa quest’ultimo ha abbandonato il gruppo). La vicinanza che il supporter finanziatore sente con l’autore del gioco è dunque fortissima, dato che ogni passo del percorso di realizzazione viene in qualche modo condiviso: la lettura periodica di brani relativi al background, al sistema di combattimento, alla gestione del party e così via fa sì che l’attesa diventi progressivamente più concitata, e che le aspettative aumentino con l’aumentare delle promesse esplicite e implicite.
Questo meccanismo può diventare, com’è facilmente intuibile, un’arma a doppio taglio: sia per la continua sublimazione dell’hype sia perché il costante passaggio di informazioni dettagliatissime può in qualche modo danneggiare la fruizione del prodotto finito, in modalità che avremo modo di approfondire al momento opportuno. Pillars of Eternity è certamente stato un pioniere di un certo modo di pensare e realizzare un videogioco: forse, anzi, è stato il protagonista di un momento irripetibile di vicinanza e solidarietà tra autori e giocatori. Il prodotto che ne è risultato riflette questa unicità, dando corpo a quelle che sono le ossessioni degli appassionati più rigorosi: la volontà di grandezza e di profondità si affiancano così a meccanismi spesso inutilmente contorti, e più in generale la natura consapevolmente retrò del progetto si accompagna a imperfezioni forse inevitabilmente connesse a essa. Benvenuti nel mondo di Eora.

2. Istantanea
Pillars of Eternity è un GdR story-driven e party-based, modellato sui gloriosi giochi Bioware e Black Isle della fine degli anni Novanta e degli inizi degli anni Duemila, primo tra tutti Baldur’s Gate. Il giocatore è chiamato a creare e impersonare un eroe al quale si affiancheranno fino ad altri cinque compagni di viaggio, arruolabili tra quelli messi a disposizione dal gioco o creabili da zero a loro volta. La visuale è rigorosamente isometrica dall’alto: il gruppo di avventurieri si muove all’interno di ambientazioni piuttosto vaste, concretizzate come fondali splendidamente disegnati e collegate tra loro da punti di passaggio. Alla trama principale si affianca un buon numero di missioni secondarie: la loro risoluzione prevede quasi sempre abbondanti combattimenti ma anche dialoghi intricati e profondi, nonché l’esplorazione di un buon numero di ambientazioni ‘selvagge’, non sempre connesse direttamente con un elemento narrativo.
I personaggi giocanti crescono di livello principalmente sulla base della risoluzione delle missioni, che quindi sono in qualche modo ‘obbligatorie’: si ottengono punti esperienza anche combattendo, ma solo quando si sconfiggono i primi esemplari di ogni creatura nemica (più nel dettaglio, solo fin quando la corrispondente voce del “bestiario”, che si arricchisce progressivamente man mano che si ha la meglio su una determinata creatura, non si completa del tutto). Qualche punto esperienza viene assegnato anche quando si scopre una nuova ambientazione o quando si scassina una serratura o si disattiva una trappola. Il mondo di gioco è statico: se una missione risulta troppo ardua in un determinato momento, basterà tornare più avanti con una squadra più potente per risolverla senza troppi problemi. La trama spinge a esplorare il mondo in una determinata direzione, ma la maggior parte delle ambientazioni è accessibile indipendentemente dal momento narrativo: parecchie missioni richiedono di visitare più volte alcune location, e non mancano frangenti in cui determinati luoghi subiscono cambiamenti o diventano inaccessibili in funzione della trama.
Il gioco è corredato da un’interfaccia molto classica, che alterna alla visuale principale le consuete schermate con l’inventario, il diario, la mappa dell’area e la scheda del personaggio. Superficialmente, la giocabilità di Pillars of Eternity è molto simile a quella dei giochi basati sul motore Infinity, come appunto il già citato Baldur’s Gate. L’analisi più approfondita delle singole componenti può, tuttavia, rivelare interessanti punti di divergenza.

3. Il (complicatissimo) mondo di Eora
Pillars of Eternity è ambientato in un mondo fantasy piuttosto tradizionale e abbastanza chiaramente ispirato ai Forgotten Realms collegati al celebre sistema di regole Dungeons & Dragons. La specie civilizzata più diffusa è quella umana, ma non mancano gli elfi, i nani e alcune altre specie più singolari, anche se comunque riconducili in qualche modo agli archetipi classici: gli orlan, piccoli di statura e dalle orecchie enormi e pelose (equivalenti degli halfling/hobbit), gli aumaua, semi-anfibi molto alti e dalla pelle verdastra (ricordano un po’ i mezzorchi di D&D e un po’ gli argoniani di The Elder Scrolls), e i godlike, umani ‘toccati’ da una divinità e segnati da una qualche caratteristica fisica bizzarra e irripetibile (simili agli aasimar o ai tiefling di D&D).
Il mondo di gioco si chiama Eora, ma Pillars of Eternity si focalizza solamente su una piccola parte dell’ecumene civilizzato: nella fattispecie, sul cosiddetto Eastern Reach, che comprende principalmente tre Stati. Il Free Palatinate of Dyrwood, dov’è fisicamente ambientata l’avventura, è uno Stato indipendente di recente formazione, staccatosi dall’Aedyr Empire a cui originariamente apparteneva in seguito a una sorta di ‘ammutinamento’ di fronte all’ordine di esplorare e depredare le pericolose rovine di Eir Glanfath, il territorio al centro dell’Eastern Reach popolato dalle primitive tribù chiamate Glanfathans ma in passato centro della civiltà Engwithan, responsabile di edificazioni e manufatti tutt’ora avvolti nel mistero. Nella parte meridionale dell’Eastern Reach si stendono le città-stato riunite nelle cosiddette Vailian Republics, importanti piazzeforti commerciali vagamente ispirate alle Repubbliche Marinare dell’Italia rinascimentale. Dyrwood confina a nord con la Penitential Regency of Readceras, Stato teocratico retto dalla casta sacerdotale del dio Eothas. Anche questo Stato era parte dell’impero Aedyr e doveva fungere da testa di ponte della colonizzazione imperiale nell’Eastern Reach: ma i progetti di coltivazione intensiva sono falliti, l’economia è decaduta e il potere è stato reclamato da un contadino di nome Waidwen, auto-proclamatosi incarnazione del dio Eothas. Inizialmente sbeffeggiato, Waidwen manifesta poteri soprannaturali che gli guadagnano un seguito notevole: scagliatosi contro Dyrwood, all’epoca ancora appartenente all’impero, viene fermato tramite una potente bomba (chiamata Godhammer) messa a punto dai maghi più potenti del territorio. La sconfitta di Waidwen, giunta al culmine della cosiddetta Saint’s War, si accompagna a una terribile maledizione, la Waidwen’s Legacy: molti bambini, in tutto l’Eastern Reach, cominciano a nascere senza anima.
Lo studio delle anime e le sue numerose implicazioni rappresentano forse la trovata più originale dell’ambientazione. Nel mondo di Eora, l’anima non è un’astrazione ma un’entità misurabile e manipolabile: tramite un processo ancora in larga parte sconosciuto, l’anima al momento della morte giace per qualche tempo in una sorta di limbo per poi reincarnarsi in una differente creatura. Normalmente, non si ha alcuna idea di quale sia la storia passata della propria anima: ma determinati eventi e procedimenti possono portare un’anima a diventare awakened (risvegliata) e a provare qualche sensazione connessa alle proprie esistenze passate. Negli ultimi tempi, si sta sviluppando sempre di più lo studio delle anime, la cosiddetta Animancy (Animanzia): le sue scoperte, però, vanno spesso a confliggere con credenze religiose antiche di secoli, con tutte le destabilizzanti conseguenze che si possono immaginare.
Il nostro alter ego comincia la sua avventura come semplice viandante diretto al villaggio di nome Gilded Vale, dove il duca locale ha promesso di assegnare un appezzamento di terra a chiunque lo richieda. Durante il viaggio, però, succede qualcosa di terribile che porta il nostro eroe a rendersi conto di essere non solo awakened ma anche watcher, ossia di avere un’anima che non solo ricorda sprazzi delle sue esistenze passate ma che è anche capace di ‘leggere’ il passato delle anime altrui. Dato che il ‘risveglio’ è assai difficile da gestire potendo facilmente portare alla pazzia, il nostro alter ego si trova suo malgrado invischiato in una missione inevitabile: scoprire le motivazioni dietro il suo ‘risveglio’, capire se c’è un modo per controllarlo, e conoscere, infine, le reali istanze nascoste dalla Waidwen’s Legacy, la terribile maledizione che sta sconvolgendo Dyrwood.

4. Lo sviluppo del personaggio
Il regolamento alla base di Pillars of Eternity è una creazione originale di Obsidian e quindi non si rifà esplicitamente ad alcun sistema esistente: purtuttavia, pensiamo di non essere troppo lontani dal vero se affermiamo che quel che abbiamo di fronte è una sorta di versione riveduta e corretta degli ultimi regolamenti di Dungeons & Dragons, con la differenza più importante consistente nel tentativo di inserire in un sistema di crescita tipicamente verticale anche qualche elemento di crescita orizzontale.
Oltre che naturalmente dalla sua razza, ciascun personaggio è determinato dalle sue caratteristiche di base, che come in D&D sono sei e hanno un valore che può andare da un minimo di 3 a un massimo di 18 (fatti salvi i consueti bonus e malus collegati alla razza). A differenza che in D&D, le caratteristiche hanno rilevanza multiforme e sono tutte in qualche modo utili: sarà quindi difficile abbassare al minimo un determinato valore per poterne portare al massimo un altro. Il Might è la forza fisica e spirituale del personaggio: è importante sia per i guerrieri sia per i maghi, e in generale per chiunque voglia infliggere gran quantità di danno in combattimento. La Constitution è la resistenza fisica, e influenza la quantità di punti ferita del personaggio. La Dexterity controlla la velocità di azione in combattimento, quindi anche in questo caso la sua importanza è più o meno generale. La Perception aumenta la capacità di interrompere le azioni nemiche durante gli scontri. L’Intellect migliora il raggio d’azione e la durata degli incantesimi, quindi in questo caso resta una caratteristica classicamente collegata ai maghi. Infine, la Resolve aumenta la resistenza a effetti quali la confusione e la dominazione mentale, oltre a ricoprire il ruolo classico del Carisma.
Quasi tutte le caratteristiche hanno un uso piuttosto esteso nei dialoghi: questo può rendere assai complessa e contraddittoria la costruzione del personaggio, dato che determinate personalità possono avere tratti che entrano in conflitto con le caratteristiche migliori per una determinata classe. Generalmente, l’utilizzo delle caratteristiche del personaggio per la gestione dei dialoghi (le cosiddette stat check) sono molto apprezzate dagli appassionati più intransigenti, e certo non si può negare che la duttilità dei dialoghi sia importante, in un gioco story-driven, per consentire adeguate sfumature interpretative: purtuttavia, pensiamo che in un sistema di gestione del personaggio tanto complesso quale quello implementato da Pillars of Eternity forse sarebbe stato meglio prevedere caratteristiche ‘dialogiche’ maggiormente indipendenti da quelle utilizzate in combattimento, così da permettere una creazione del proprio alter ego più libera e soddisfacente.
Oltre alla messa a punto delle caratteristiche, è momento cruciale della creazione del personaggio anche, ovviamente, la scelta della classe. Pillars of Eternity offre undici opzioni, quasi tutte corrispondenti a un qualche archetipo classico; forse l’unica eccezione è il Cipher, sorta di guerriero psionico dotato di incantesimi innati basati sulla dominazione mentale e lanciabili consumando il focus, una energia che si ricarica con ogni colpo andato a segno. Le altre dieci classi sono molto più facilmente maneggiabili da chi mastica il regolamento di D&D e sono il Barbarian, il Chanter, il Druid, il Fighter, il Monk, il Paladin, il Priest, il Ranger, il Rogue e il Wizard. Le classi basate sul combattimento all’arma bianca hanno come punti di forza determinate abilità utilizzabili regolarmente durante gli scontri, mentre le classi ‘magiche’ possono contare su approfonditi arsenali arcani: approfondiremo meglio questi aspetti nelle sezioni relative al combattimento e alla magia.
Mentre le caratteristiche rimangono fisse per tutta la durata del gioco (anche se non mancano oggetti magici o pozioni capaci di aumentarle o diminuirle per breve tempo o anche costantemente), con la crescita di livello il nostro eroe potrà apprendere nuovi Skill, Ability e Talent. Le Skill sono cinque abilità collegate ad ambiti esterni al combattimento e sono Stealth (movimento furtivo), Athletics (resistenza alla fatica che il personaggio accumula esplorando e combattendo e che può essere azzerata dormendo), Lore (capacità di utilizzare pergamene rare), Mechanics (capacità di disarmare le trappole e di scassinare serrature) e Survival (abilità di sfruttare appieno le pozioni aumentandone la durata). Le Ability sono molto numerose e sono diverse per ciascuna classe: possono essere attive, passive o modali (cioè costantemente attive dal momento in cui vengono ‘accese’) e se ne ottiene una nuova ogni livello dispari. I Talent sono sia generici sia specifici per la propria classe e funzionano esattamente come le Ability, ma se ne ottiene uno nuovo ogni livello pari. I Talent sono assai più numerosi e aleatori rispetto alle Ability e permettono di ‘staccare’ in qualche modo ciascuna classe dal proprio ambito di riferimento, consentendo la creazione di personaggi più caratterizzati: per esempio, nulla vieta di scegliere una classe ‘magica’ e di mischiare le sue capacità di base con talenti che amplifichino la sua abilità nell’uso delle armi e delle armature pesanti.
Come scrivevamo in apertura di paragrafo, il lodevole tentativo degli autori è senza dubbio quello di mitigare l’eccessiva verticalità della crescita dei personaggi in D&D e nei sistemi affini: in Pillars of Eternity, l’aumento di livello non comporta l’improvvisa acquisizione di abilità cruciali né l’aumento esponenziale dei valori di base (anche se le statistiche collegate al combattimento e i punti ferita migliorano progressivamente in modo automatico sulla base della classe e delle caratteristiche). La faccenda ha conseguenze sia positive sia negative: la maggior parte delle abilità resta utile dall’inizio alla fine della partita, e questo può portare ad adagiarsi sull’abitudine e a limitarsi a utilizzare le stesse azioni anche quando nel frattempo se ne rendono disponibili altre più efficaci. Dal punto di vista più strettamente meccanico, talvolta si ha l’impressione che la crescita di livello non abbia conseguenze davvero apprezzabili, dato che i mutamenti più importanti avvengono dietro le quinte e che il giocatore si limita a migliorare una Skill o una abilità passiva e nient’altro. L’impressione finale è la stessa che si ha anche in altri ambiti del gioco: la complessità dei meccanismi non è comunicata al giocatore in modo ragionevole e coinvolgente ma in modo frammentato e discontinuo, con abilità secondarie ottimamente spiegate e ‘regolabili’ affiancate ad abilità fondamentali il cui funzionamento è ‘raccontato’ solo in qualche remota pagina del diario. Il sistema in sé è interessante, ma poteva e doveva essere implementato e soprattutto comunicato meglio.

5. Il sistema di combattimento
In Pillars of Eternity il combattimento riveste un ruolo essenziale: pur non essendo la modalità principale di acquisizione dell’esperienza, è una componente utilizzata a larghe mani dagli autori quale tappa in qualche modo inevitabile di qualunque missione e di ogni sessione esplorativa. Anche in questo comparto l’ispirazione evidente è quella rappresentata da Baldur’s Gate e in generale da tutti i giochi basati sul motore Infinity: gli scontri avvengono in tempo reale, ma è presente un sistema di “pausa attiva” che consente di dare ordini in tutta calma a ogni membro del party.
Il sistema è altamente personalizzabile: per esempio è possibile attivare la pausa automatica in determinate circostanze (è particolarmente utile quella che si attiva quando viene avvistato un nemico), ed è anche contemplata la possibilità di rallentare lo scorrere del tempo durante i combattimenti, così da tenere sotto controllo al meglio l’azione. La velocità di gioco, a onor del vero, può essere regolata in qualunque momento: ma rallentarla durante gli scontri è sommamente utile per gestire la situazione in tutta tranquillità.
Il meccanismo alla base di ciascun attacco è il consueto lancio di dado ‘virtuale’, modificato sulla base delle caratteristiche della creatura e confrontato con il valore di difesa (deflection) del bersaglio. Risultati molto bassi portano a un colpo ‘mancato’, risultati medio-bassi a un colpo parzialmente a segno (graze), risultati medio-alti a un colpo pieno e risultati altissimi a un colpo critico (crit). Non mancano, però, concetti di una certa originalità che meritano di essere adeguatamente segnalati. Il primo è la modalità di gestione della frequenza degli attacchi: quest’ultima dipende anzitutto dalla tipologia di arma utilizzata, ma anche dall’armatura indossata, col risultato che il personaggio bardato con l’equipaggiamento più pesante sarà il più ben difeso ma anche il più lento nell’attaccare. Interessante è il sistema di feedback grafico del tempo di recupero tra un attacco e l’altro: sopra ciascun personaggio comparirà una barra che si riempirà progressivamente, e che quando sarà piena vedrà il personaggio scagliare il suo attacco successivo. A complicare le cose interviene anche il fatto che alcuni attacchi e alcuni incantesimi possono interrompere l’azione nemica, col risultato che la barra dovrà ricominciare da capo il suo riempimento.
Anche la gestione del cosiddetto fuoco amico è interessante e originale: gli attacchi ad area sono segnalati da un apposito sistema di cerchi concentrici, il più interno dei quali indica la zona in cui tutte le creature coinvolte subiranno le conseguenze dell’attacco, e il più esterno la zona in cui le subiranno solamente i nemici. Forse la funzionalità dotata di maggiori conseguenze è però la gestione di quelli che potremmo chiamare gli attacchi di opportunità, che il gioco chiama disengagement attack: trattasi di attacchi ‘gratuiti’ assegnati a chiunque sia impegnato in un combattimento in corpo a corpo e veda uno dei suoi avversari tentare lo ‘sganciamento’. Sono attacchi generalmente letali in quanto dotati di condizioni ‘numeriche’ assai vantaggiose: la loro presenza costringe a un’organizzazione attentissima del campo di battaglia, dato che risulta quasi impossibile cambiare posizione a un personaggio ingaggiato in un combattimento ravvicinato. Purtroppo, l’intelligenza artificiale dei nemici non è particolarmente brillante e questo regala al giocatore un certo vantaggio dato che consente l’utilizzo indiretto dei disengagement attack basato sullo sfruttamento della tendenza degli avversari di scagliarsi contro chi sta infliggendo più danni (di solito un mago o un arciere nelle retrovie).
L’elemento che a nostro avviso indebolisce maggiormente il sistema di combattimento è forse la presenza di numerose e importanti abilità che si ‘ricaricano’ dopo ogni scontro. Il loro essere all’atto pratico sempre disponibili rende il loro utilizzo in un certo senso quasi ‘automatico’: ciascun combattimento inizierà dunque con la stessa sequenza di azioni, rendendo il tutto piuttosto ripetitivo. Solo dopo aver esaurito le abilità etichettate con la dicitura per encounter (cioè disponibili tot volte per ogni scontro) il giocatore sarà portato a esplorare altre possibili opzioni: ma solitamente basteranno quelle abilità ad avere ragione del nemico, soprattutto se si è attenti nel disporre il party sul campo di battaglia. L’utente deve dunque in un certo senso ‘costringersi’ a usare le abilità più ricercate, che restano alla fin fine un puro e semplice sfizio o un’arma destinata ai pochi combattimenti davvero complicati.

6. Regolamento onnipotente?
Un’altra importante differenza tra Pillars of Eternity e i gloriosi giochi della serie di Baldur’s Gate è la modalità di gestione dei punti ferita dei personaggi giocanti. Al classico valore di health (salute) si affianca quello di endurance (resistenza): entrambi calano man mano che il personaggio riceve danno, ma l’endurance si consuma molto più rapidamente per poi ricaricarsi del tutto al termine dello scontro. La health, dal canto suo, non si rigenera se non riposando: quando raggiunge livelli particolarmente bassi, può far diminuire il livello massimo di endurance, con tutte le conseguenze del caso. Le pozioni e gli incantesimi di guarigione sono tutti collegati all’endurance, e quindi il loro uso ha un senso solamente durante il combattimento: solo alcune rarissime abilità consentono il recupero di una quantità minima di health. Quando un personaggio esaurisce la sua endurance cade svenuto e si rialza al termine dello scontro: quando invece esaurisce la sua health, va incontro a morte definitiva.
In termini più concisi, il dualismo endurance/health separa la gestione della salute dei personaggi giocanti in due ambiti: la salute durante gli scontri e la salute generale, risultato dell’accumulo di tanti scontri durante la medesima sessione esplorativa. L’unica modalità per ‘resettare’ le condizioni dei personaggi è il riposo: nelle zone civilizzate si può riposare nelle locande o in altri luoghi appositamente predisposti, mentre nelle zone selvagge e nei dungeon si può riposare ‘spendendo’ un lotto di provviste. Il problema è che queste ultime non possono essere accumulate all’infinito, ma solo in piccola quantità: questo impedisce l’abuso del riposo, un problema abbastanza tipico dei giochi basati sul motore Infinity (che cercavano di risolverlo tramite la possibilità, non presente in Pillars, di essere attaccati da mostri erranti). A livello di difficoltà normale, il gioco consente al massimo quattro sessioni di riposo consecutive: ma c’è da dire che i dungeon più intricati offrono talvolta la possibilità di scoprire al loro interno provviste abbandonate, così da ‘ricaricare’ le scorte in corso d’opera, senza la necessità di tornare in città.
Tutti questi stratagemmi, chiaramente atti a risolvere alcuni dei problemi più evidenti dei giochi basati sul motore Infinity, sono senza dubbio interessanti e in molti casi anche degni di apprezzamento. Purtuttavia, ci è spesso capitato di pensare, durante le nostre lunghe sessioni di gioco, che si tratti di complicazioni esclusivamente ‘tecniche’ e quindi di carattere puramente velleitario . La faccenda merita una spiegazione più esaustiva. In generale, siamo convinti che nessun sistema di regole sia del tutto privo di sbavature o di punti deboli: nel momento stesso in cui cerchi di ridurre una simulazione a un regolamento, ti esponi al rischio inevitabile di dar vita a inconsistenze. Questo assunto va semplicemente accettato, come va anche accettato il fatto che le irriducibili debolezze del regolamento non si risolvono appesantendo il regolamento stesso con miliardi di eccezioni. Dev’essere il progetto artistico a fare la differenza. Un gioco come Baldur’s Gate è un capolavoro non certo perché il suo sistema di regole o in generale la sua giocabilità siano assolutamente perfetti: anzi, sono pieni di limiti anche piuttosto evidenti. Eppure l’opera ha un tale respiro e il suo concept vola talmente alto che se qualcuno la stroncasse perché (per esempio) si può abusare del riposo, farebbe immediatamente la figura del cretino.
Il regolamento di Pillars of Eternity soffre di eccessiva pesantezza proprio a causa di questo equivoco: perché cerca la quadratura del cerchio rimanendo nell’ambito delle regole anziché sublimandole tramite i contenuti. L’ultimo lavoro di Obsidian palesa non troppo paradossalmente, nell’esasperato tecnicismo del suo sistema di regole, un approccio al design quasi infantile: l’approccio di chi pensa che tutto sia in qualche modo costringibile nelle strette e ottuse maglie della logica.

7. La magia
Anche nell’ambito della gestione dei poteri arcani, Pillars of Eternity pesca a piene mani dalle modalità sperimentate nei giochi basati sul motore Infinity. Le due classi magiche principali sono i maghi (wizard) e i chierici (priest), ma non mancano i druidi e, come abbiamo già scritto, i più originali cipher.
I maghi organizzano le loro magie all’interno del cosiddetto grimorio. Gli incantesimi sono organizzati per livello: ciascun grimorio può contenere quattro magie per ogni livello, e il gioco permette di cambiarle in ogni momento al di fuori del combattimento. Durante gli scontri, ciascun mago ha a disposizione un certo numero di magie per ogni livello, e può scegliere liberamente quali usare tra le quattro ‘memorizzate’ nel grimorio: per esempio, se un mago ha a disposizione tre magie di livello 4, potrà lanciare tre incantesimi differenti in tre diverse occasioni o anche lo stesso incantesimo per tre volte. Il numero di lanci si resetta ogni volta che il party riposa: ai livelli più alti, però, le magie di livello inferiore si ricaricano dopo ogni combattimento, diventando virtualmente infinite. È possibile preparare diversi grimori con diversi set di incantesimi, così da poter cambiare alla bisogna il proprio arsenale magico: ma cambiare grimorio in combattimento è operazione laboriosa che lascia il mago vulnerabile per lunghi secondi, e c’è da dire che applicando le giuste strategie è possibile utilizzare senza problemi un unico grimorio.
A differenza che in Baldur’s Gate e nei suoi epigoni, gli incantesimi non si apprendono tramite le pergamene (che pure esistono, ma servono solo per lanciare magie magari non disponibili nel grimorio): l’unico modo per ampliare il proprio arsenale arcano è impadronirsi dei grimori nemici e ‘imparare’ gli incantesimi da lì. Per farlo, però, è necessario, piuttosto irrealisticamente, pagare una somma di denaro (non è ben chiaro a chi): si tratta di cifre che rappresentano un ostacolo solamente nelle primissime fasi di gioco, dato che ben presto il nostro alter ego potrà contare, come vedremo, su una dotazione praticamente infinita di moneta sonante.
I chierici e i druidi non necessitano di imparare incantesimi né di usare grimori: le loro magie sono ‘innate’ e vengono imparate automaticamente quando si raggiunge il livello a cui sono collegate. Il sistema di lancio è identico a quello spiegato a proposito dei maghi: il personaggio ha a disposizione un certo numero di lanci per ogni livello, e può liberamente scegliere di volta in volta la magia preferita. I cipher non hanno nemmeno quest’ultima restrizione: possono lanciare le loro magie all’infinito, purché abbiano sufficiente focus, un’energia che si ricarica mettendo a segno colpi (è una buona idea, quindi, assegnare al cipher un’arma che abbia un’alta velocità di attacco). I cipher hanno prevalentemente magie d’attacco, ma sono decisamente meno flessibili dei maghi; i chierici prediligono gli incantesimi di protezione, mentre i druidi hanno dalla loro la capacità di trasformarsi in potenti creature.
Un elemento importante da considerare è il fatto che la maggior parte delle magie, anche delle magie difensive, può essere lanciata solamente in combattimento. Questo significa che è impossibile, in Pillars of Eternity, potenziare il proprio party con incantesimi di protezione subito prima di cominciare uno scontro, com’è invece consuetudine nei giochi basati sul motore Infinity. D’altra parte, il fatto stesso che l’endurance si ricarichi al termine di ogni combattimento rende gli incantesimi di protezione e di guarigione assai meno cruciali: di conseguenza, il ruolo stesso di chierici e druidi risulta fortemente ridimensionato.

Excursus: i compagni di viaggio

Pillars of Eternity ci mette a disposizione otto potenziali compagni di avventure: tutte le classi sono rappresentate ad eccezione del ladro, del barbaro e del monaco. Com’è spiegato meglio nel corpo principale della recensione, la qualità della scrittura dei personaggi è estremamente diversificata, perché ciascuno di loro è opera di un autore differente, come specifichiamo nelle brevi descrizioni offerte.

Eder è un guerriero già fervente seguace di Eothas, dio della luce. In seguito agli eventi della Saint’s War, nauseato dalle efferatezze compiute dai suoi correligionari, decide di combattere contro Waidwen. Alla fine il suo schieramento ha la meglio, ma Eder resta profondamente turbato dagli eventi e nella gran parte dell’avventura il protagonista dovrà fare i conti con la sua fede vacillante. Eder è opera di Eder Fenstermaker.
Aloth è un mago elfo nato nell’impero di Aedyr. Apparentemente piatto e monocorde, è in realtà collegato a una delle missioni secondarie forse più interessanti in assoluto. Aloth è opera di Carrie Patel.
Durance è un chierico di Magran, divinità del fuoco. Dal temperamento instabile e violento, Durance ha avuto un ruolo molto importante nella messa a punto del Godhammer con cui è stato sconfitto Waidwen al termine della Saint’s War. La missione a lui collegata, particolarmente verbosa, consiste semplicemente nel conoscere a fondo le motivazioni che lo portano a viaggiare col Watcher (il protagonista). Durance è opera di Chris Avellone, lo scrittore di punta, fino a qualche settimana fa, di Obsidian.
Grieving Mother (in italiano Madre in cordoglio) è una strana cipher che si esprime in linguaggio enigmatico e con la quale il protagonista interagisce soprattutto tramite visioni e letture del pensiero. Come per Durance, sarà solo l’esperienza condivisa a gettare un po’ di luce sulla reale identità e sulle reali intenzioni di questo personaggio. Grieving Mother è anch’ella opera di Chris Avellone.
Hiravias è un druido orlan appartenente alle tribù di Eir Glanfath. Dalle abitudini primitive e dal pensiero vagamente naif, Hiravias nasconde una notevole potenza essendo in grado di trasformarsi in un potente stelgaer antropomorfo (gli stelgaer sono feroci felini che infestano le foreste di Eir Glanfath). Hiravias è opera di Matt MacLean.
Kana Rua è un chanter aumaua: il protagonista lo incontra nei pressi della fortezza di Caed Nua, intento a scoprire qual è il male che si annida nelle sue profondità. Kana proviene da Rauatai, città stato famosa per il suo livello di sviluppo tecnologico, in particolare nell’ambito delle armi da fuoco e dell’artiglieria. Kana Rua è opera di Olivia Veras.
Pallegina è una paladina godlike proveniente dalle Repubbliche di Vailian. Più precisamente, Pallegina è una avian, cioè è stata ‘benedetta’ da Hylea, la divinità dei cieli, quindi è caratterizzata da penne d’uccello al posto dei capelli e occhi dorati. Pallegina è molto combattuta, durante il gioco, tra la volontà di obbedire a chi l’ha spedita in Dyrwood come ambasciatrice e la volontà di ignorare gli ordini più palesemente sciocchi e improduttivi. Pallegina è opera di Josh Sawyer, il lead designer del gioco.
Sagani è una nana ranger accompagnata da una volpe di nome Itumaak. Sagani proviene da una tribù dell’isola di Naasitaq: la sua missione è trovare la nuova incarnazione dell’anima di Persoq, il vecchio capo tribù recentemente deceduto, così da poter incoronare un nuovo mentore, com’è tradizione a Naasitaq. Sagani è opera di Carrie Patel.

8. Dialogo
I contenuti di Pillars of Eternity sono complessi e ridondanti almeno quanto il suo regolamento: i dialoghi che il nostro protagonista può intrecciare sia con i personaggi non giocanti sia con i compagni di viaggio sono solitamente lunghi e contorti, e richiedono una certa concentrazione (nonché una buona memoria) per poter essere apprezzati appieno.
Il sistema implementato è quello, classicissimo, della scelta multipla. Come abbiamo già accennato, il gioco fa un uso molto esteso dei cosiddetti stat check: molte risposte sono selezionabili solo da chi abbia determinati requisiti. È interessante il fatto che il sistema offra anche in quest’ambito una notevole flessibilità: tramite le opzioni, il giocatore può decidere di mostrare solamente le risposte disponibili per il suo personaggio o anche quelle non disponibili, e si può anche scegliere di visualizzare le ragioni per cui una determinata risposta può o non può essere selezionata. A nostro avviso la soluzione migliore dal punto di vista interpretativo è nascondere tutto: ma chi vuole rendersi conto della quantità di opzioni offerte farebbe bene a lasciare tutto in vista. Certo, va detto che non sempre le numerose risposte sono collegate ad altrettanti esiti differenti: ma come abbiamo già avuto modo di spiegare in passato, l’interpretazione ha senso in sé e non solo se porta a conseguenze tangibili.
Un altro elemento degno di nota è che non sempre le risposte collegate a determinate caratteristiche sono le ‘migliori’ dal punto di vista dell’esito: a volte, anzi, portano alle conseguenze più nefaste. Più in generale, è interessante e stimolante la natura intrinsecamente grigia e agrodolce di tante decisioni da prendere: la ‘bontà’ indiscriminata provoca risultati talvolta catastrofici. In un certo senso, gli autori ci mettono davanti al fatto che la realtà ci costringe a scelte inevitabilmente tragiche, delle quali occorre farsi carico senza cercare scorciatoie troppo facili. La complessità degli intrecci fa sì che non sempre i fili riescano a tessersi nel modo più appropriato: sarà quasi inevitabile, durante la campagna, fallire qualche missione o trovarsi nelle condizioni di dover fare una strage per risolvere un qualche problema.
La complessità è, ovviamente, difficile da maneggiare: non solo per i fruitori ma anche per gli autori. La criticità più evidente dei contenuti letterari di Pillars of Eternity è senza dubbio la loro forte disomogeneità: un problema che risulta particolarmente chiaro quando si prendono in considerazione i compagni di viaggio, che sono, dichiaratamente, frutto del lavoro di autori differenti. I personaggi scritti da Chris Avellone sono incomparabilmente più loquaci di quelli scritti dal resto del team, e possono anche vantare un differente livello di approfondimento nonché l’inconfondibile stile vagamente ermetico che caratterizza la produzione di questo autore: a nostro avviso questo non è un bene perché li fa sembrare in qualche modo estranei al resto della squadra, due battitori liberi che mal si amalgamano con i più discreti e più comunitari comprimari. Più in generale, la gestione dei contenuti connessi ai compagni di viaggio è quanto di più discutibile si possa immaginare, forse l’elemento più biasimevole di tutta la produzione. Quando si incontra un nuovo comprimario, si possono passare decine e decine di minuti per ‘esplorare’ tutti i suoi dialoghi: ma per tutto il resto dell’avventura il compagno diventa un silente burattino, che si limita a qualche sporadicissimo commento estemporaneo o a qualche timida battuta durante la missione a lui collegata. Chi si aspetta da Obsidian la cura e l’attenzione tradizionalmente riposta nel delineare le personalità dei compagni di viaggio del protagonista resterà amaramente deluso: i comprimari hanno a disposizione un arsenale di dialoghi spesso corposo e approfondito, ma quasi del tutto slegato dalle vicende narrate, quasi ‘sovrapposto’ al personaggio anziché a lui connaturato. Da questo punto di vista perfino un prodotto mediocre come Dragon Age Inquisition è decisamente migliore di Pillars of Eternity.

9. La scrittura
La qualità della scrittura e della narrazione in Pillars of Eternity meritano un approfondimento adeguato all’importanza che questi comparti ricoprono nell’economia generale di gioco. L’ultima fatica di Obsidian ha contenuti intensi e dispiegati senza parsimonia: i dialoghi, solo rarissime volte dotati di sonoro, sono accompagnati da lunghe descrizioni di espressioni e di atteggiamenti, e le ambientazioni non lesinano punti interattivi che fanno comparire altre descrizioni, senza contare i numerosi libri che il giocatore può trovare e leggere. Dal punto di vista strettamente quantitativo, l’esperienza ‘letteraria’ vissuta dall’utente in Pillars of Eternity non è troppo distante da quella sperimentata in Planescape: Torment o, più recentemente, in Neverwinter Nights 2: Mask of the Betrayer, due notevoli prodotti della medesima squadra di autori.
La profusione di testo è messa al servizio di tematiche che, sulla carta, volano molto alto. Il leitmotiv di Pillars of Eternity è quale debba essere, in un mondo di gioco apparentemente fantasy, il ruolo dell’animanzia, ossia dello studio delle anime, svolto con criteri e presupposti che ricordano in più punti quelli tipicamente collegati, nel mondo reale, alla ricerca scientifica. Gli studiosi di questa relativamente nuova disciplina si muovono col piglio razionalista di chi ha ben chiara la natura intrinsecamente positiva della conoscenza, e non si fermano nemmeno di fronte alle fattispecie più spiacevoli da affrontare nel lungo viaggio della ricerca. Il popolino, naturalmente, è spaventato dalla spregiudicatezza ‘sperimentale’ degli animanti e dalle implicazioni più pericolose della loro metodologia: lo studio delle anime è ostacolato non solo, com’è prevedibile, dagli adepti delle fedi religiose, ma anche da molti uomini di potere, preoccupati soprattutto di mantenere lo status quo e la tranquillità sociale. La questione echeggia, con grande evidenza, alcuni dibattiti del mondo contemporaneo, per esempio quello incentrato sulla sperimentazione animale: da questo punto di vista gli autori sono brillantemente riusciti a ispirarsi alla realtà senza tradire eccessi di didascalismo, ossia senza dare mai l’impressione di stare ‘trapiantando’ nella fantasia qualche loro ossessione quotidiana.
Purtroppo, però, non è tutto oro quel che luccica. La scrittura di Pillars of Eternity sembra in più occasioni ripiegarsi su se stessa anziché prendere compiutamente il volo: in particolare, gli autori paiono precipitare con frequenza inusitata dentro quella che potremmo chiamare una sorta di frenesia descrittiva, che li porta a spendere quantità sproporzionate di spazio nel raccontare i dettagli che evocano le atmosfere anziché le idee o i fatti che costituiscono la scottante materia del contendere. L’esempio più eclatante è, da questo punto di vista, il mirabile plot twist che arricchisce la trama sul finale e che qui non raccontiamo per evitare spoiler: si tratta di una rivelazione che avrebbe potuto lasciare spazio a riflessioni virtualmente infinite sui limiti antropologici dello sviluppo umano, ma l’impressione finale è che i suoi stessi ideatori si siano lasciati in qualche modo intimidire dalla portata del dibattito e che abbiano rinunciato in partenza a dispiegarne il mirabile potenziale ‘distruttivo’.
È peraltro, questo, un tratto caratteristico, a nostro avviso, di tanta letteratura fantasy. La sensibilità dell’autore di mondi fantastici sembra condizionata costantemente dalla necessità di descrivere dettagliatamente, con piglio quasi pittorico, ogni circostanza in cui si risolve la narrazione: la trama e i suoi contenuti costituiscono semplicemente, dentro questa sensibilità paradossalmente iper-realistica, un semplice e trascurabile canovaccio, non necessariamente meritevole di approfondimenti adeguati. Da questo punto di vista Pillars of Eternity è sommamente tradizionale e quindi molto lontano dalla carica eversiva di un prodotto come Planescape: Torment, nel quale ogni parola trasuda concretezza e urgente necessità di vita filosofica.
Si potrebbe controbattere che quasi ogni prodotto di intrattenimento digitale ha una natura anzitutto ludica e che, come peraltro abbiamo noi stessi più volte sostenuto, il comparto contenutistico deve sempre essere al servizio delle meccaniche di gioco e non viceversa. Il problema è che mentre per esempio un Baldur’s Gate non tradisce mai alcuna volontà di trascendere i suoi classicissimi contenuti fantasy, Pillars of Eternity tradisce questa volontà fin dalle prime battute: l’aspirazione, però, rimane tale fin quando scorrono i titoli di coda. L’ultimo lavoro di Obsidian è dunque, da questo punto di vista, un prodotto irrisolto: e la verbosità delle sue prolisse descrizioni è tanto più irritante quanto più si ha chiaro in testa dove avrebbe potuto portare la materia trattata se solo fosse stata approfondita con un po’ più di coraggio.

10. Esplorazione e inventario
I combattimenti e la lettura dei testi non sono le uniche attività richieste al giocatore: come abbiamo già detto, Pillars of Eternity implementa anche vaste parti di pura e semplice esplorazione, di dungeon come di zone selvagge, di città come di piccoli villaggi. L’organizzazione degli spazi ribadisce il dualismo consueto: nelle aree civilizzate si raccolgono missioni, nelle aree non civilizzate si combattono mostri e si cercano tesori.
Questi ultimi possono essere nascosti nelle ambientazioni (all’interno di casse e barili, ma anche in luoghi meno ovvii) oppure si possono trovare depredando i cadaveri dei nemici: le opzioni consentono di stabilire se sarà necessario cliccare su ciascun nemico ucciso per visualizzare e recuperare il bottino o se basterà un singolo clic per ripulire un’intera zona. Pillars of Eternity implementa un sistema di gestione dell’inventario piuttosto originale: al classico ‘zaino’ che ciascun membro del party porta con sé si affianca il cosiddetto stash, ossia una sorta di deposito virtuale dotato di spazio infinito. La particolarità è che lo stash è praticamente sempre accessibile: certo, le opzioni consentono di regolare anche questo, ma anche inibendo il più possibile l’uso dello stash è impossibile cancellarne del tutto la presenza, col risultato che al giocatore converrà raccogliere sempre tutto quel che trova, incluse le armi e le armature non magiche di livello più basso.
Il risultato è paradossale e decisamente poco piacevole: potendo rivendere tonnellate di oggetti ogni volta che incontra un mercante, il nostro alter ego diventerà ricchissimo in poco tempo; senza contare che la possibilità di conservare tutto porta necessariamente a raccogliere il bottino distrattamente, senza prestare davvero attenzione a ciò che la merita davvero. Non aiuta affatto, da questo punto di vista, la relativa pochezza dell’armamentario disponibile: il gioco è insolitamente parco di oggetti unici o leggendari, e la maggior parte degli oggetti magici è semplicemente identica alla controparte base ma con statistiche leggermente migliori. Per di più, nessun oggetto unico ha caratteristiche veramente uniche: i più prestigiosi semplicemente migliorano, in modo del tutto passivo, alcuni tratti del personaggio, ma senza consentire strategie di combattimento inedite.
Pillars of Eternity implementa un rudimentale sistema di crafting poco ispirato e del tutto trascurabile. Vi si può accedere in ogni momento, esattamente come per lo stash: il giocatore ha a disposizione fin da subito tutte le ‘ricette’ e può creare al volo cibi o pozioni appena ha a portata di mano gli ingredienti richiesti.
Un’altra particolarità degna di nota è la modalità di gestione del movimento furtivo. Anzitutto, la sua attivazione coinvolge l’intero party e non solamente il personaggio selezionato: ed è sufficiente che uno solo dei componenti della squadra venga scoperto per far saltare la copertura anche a tutti gli altri (c’è da dire che questa caratteristica è stata modificata da una patch). In secondo luogo, il movimento furtivo è necessario non solo per effettuare attacchi letali contro i nemici o per scoprire le trappole, com’è consuetudine, ma anche per trovare oggetti nascosti: non sarà così strano, dunque, trovarsi a esplorare intere ambientazioni con la modalità furtiva sempre attivata, con tutte le (irrealistiche) conseguenze del caso. E ci permettiamo di dire che fa sinceramente sorridere il fatto che le due alternative offerte dal gioco per gestire il movimento del party siano la “corsa sul posto” offerta dall’animazione ‘normale’ e l’andatura rannicchiata del passo furtivo: una camminata qualunque era così difficile da implementare?

11. La fortezza
Tra le varie aggiunte al progetto iniziale dovute alla gran quantità di finanziamento ottenuta da Kickstarter, la più scintillante è forse quella della fortezza: nelle prime battute della trama, il protagonista otterrà per sé un poderoso castello in rovina, Caed Nua, e potrà dedicarsi al suo restauro e al suo mantenimento. Purtroppo, il sistema scelto per la gestione di questa ‘base’ è a nostro avviso gravemente insoddisfacente, e ora cercheremo di spiegare il perché.
Da quando il giocatore ottiene la fortezza, può accedere in ogni momento alla relativa schermata dell’interfaccia. Lì può per esempio scegliere di restaurare una determinata parte, spendendo una cospicua somma di denaro: l’operazione richiede anche un determinato tempo di attesa, basato sul tempo virtuale misurato dal gioco (quindi basterà riposare più volte di seguito per completare un determinato restauro in pochi minuti di tempo reale). Le componenti della fortezza rimesse a nuovo si accompagnano a bonus di varia natura: per esempio le fortificazioni aumentano il valore di difesa del castello, rendendolo più resistente agli attacchi nemici. Questi ultimi avvengono periodicamente e possono essere risolti in modo diretto, tramite un normale combattimento in una zona appositamente predisposta, oppure in modo indiretto, vale a dire pagando la somma relativa ai danni effettuati dagli invasori. Altre strutture offrono bonus di carattere differente, per esempio miglioramenti temporanei alle caratteristiche del personaggio quando il party riposa nella fortezza (c’è da dire, peraltro, che riposare a Caed Nua è particolarmente laborioso essendo il punto preciso raggiungibile solo caricando diverse ambientazioni una dopo l’altra).
Tutte le altre variazioni sul tema offerte dalla fortezza, quali per esempio l’arruolamento di soldati, la possibilità di mandare i membri del party in missioni virtuali o la messa a disposizione di incarichi basati sulla sconfitta di qualche ricercato (le “taglie”), risultano comunque poco ispirate e soprattutto eccessivamente astratte: il giocatore si troverà a cliccare di quando in quando sulla schermata relativa alla fortezza ma non sentirà mai l’impellente bisogno di visitarla, né si sentirà mai in qualche modo coinvolto da qualche evento là consumatosi. Siamo lontani anni luce, ahinoi, dalla brillante implementazione delle stronghold in Baldur’s Gate II: Shadows of Amn, dove peraltro ciascuna classe aveva a disposizione una fortezza completamente differente. Ben poco risolve, da questo punto di vista, la presenza sotto Caed Nua di un dungeon sterminato, anch’esso collegato alla campagna di Kickstarter, la cui risoluzione è del tutto opzionale e la cui natura di puro e semplice divertissement è evidente fin dalle prime battute della sua esplorazione.

12. Tecnicismi
Pillars of Eternity è basato su una versione altamente personalizzata da Obsidian del motore Unity. Il risultato generale è, dal punto di vista grafico, decisamente apprezzabile, almeno se si tiene in conto la natura intrinsecamente nostalgica dell’operazione. I fondali sono disegnati ottimamente e le animazioni, discretamente sovrapposte agli elementi statici, sono coinvolgenti e a loro modo financo poetiche. Purtroppo non ci convincono affatto, come abbiamo già sottolineato, le animazioni collegate al movimento del party: e in generale pensiamo che anche durante i combattimenti si sarebbe potuto fare molto di più per rendere ogni circostanza chiara ed evitare confusione (in alcuni frangenti, per esempio, vi sono elementi dello scenario che nascondono completamente le creature coinvolte nello scontro, rendendo assai complicata la gestione dello stesso).
Il commento sonoro, dovuto a Justin Bell, è sensazionale: le musiche riescono a essere epiche come intimiste, malinconiche come trionfali, e si adattano alla perfezione alle differenti atmosfere evocate dal racconto e dal comparto grafico. Il parlato è purtroppo ridotto ai minimi termini, ma si tratta di un peccato veniale considerando la natura globale del prodotto: i pochi frammenti di doppiaggio disponibili sono modesti e poco curati, sia nella qualità del suono sia anche nella natura delle voci coinvolte, che sentiremo ripetersi con frequenza anche tra gli stessi membri del party.

13. Conclusioni
Pillars of Eternity non è un prodotto facile da giudicare, perché moltissimo dipende dalle aspettative del fruitore. Non stentiamo a credere che molti appassionati di vecchia data lo apprezzeranno parecchio, andando indietro con la memoria ai bei tempi in cui il GdR occidentale brillava di luce propria grazie alle prodezze di Bioware e Black Isle, a cavallo tra fine anni Novanta e inizio anni Duemila. È infatti la natura orgogliosa e dichiarata di Pillars of Eternity quale sorta di “operazione nostalgia” a essere collegata ai suoi problemi più vistosi: è come se gli autori siano al contempo pienamente consapevoli dei limiti della riproposizione nell’oggi di uno schema così fortemente legato a una fase storica conclusa, ma anche assolutamente convinti della necessità di tornare a quello schema, nell’idea che il fulgore degli “anni d’oro” del GdR contemporaneo non sia mai più stato raggiunto in seguito.
Forse la domanda che dovremmo porci è: la riproposizione di meccaniche old style deve per forza inserirsi nell’ambito della riproposizione di un intero sistema di gioco? Pensiamo a un prodotto come Divinity: Original Sin. Anch’esso fa del suo essere rivolto agli appassionati di vecchia data la sua caratteristica principale: in maniera se vogliamo anche più radicale di Pillars of Eternity, vista la presenza del combattimento a turni. Eppure, non ci sentiremmo di dire che Original Sin sia una pura e semplice “operazione nostalgia”: perché pur riprendendo stilemi tipici del passato, si tratta di un prodotto che guarda avanti, proponendo una giocabilità che è, nel suo insieme, sostanzialmente inedita.
Pillars of Eternity è prigioniero delle sue stesse ambizioni: riproporre una giocabilità vecchia di anni proponendosi di risolvere i suoi difetti rimanendo però rigorosamente nell’ambito dello schema antico non può che portare a incertezze e inconsistenze. Sia chiaro: il gioco è godibilissimo e merita di stare nella collezione di ogni appassionato di GdR digitale, se non altro per i suoi interessanti contenuti. Eppure non ci abbandona la sensazione di non essere di fronte al capolavoro che ci si poteva aspettare dopo una campagna Kickstarter così travolgentemente positiva. La nostra impressione è che Obsidian debba cercare di andare oltre la sollecitazione della nostalgia: oppure che debba, di converso, riproporre lo schema antico tal quale, senza cercare improbabili correzioni che possono funzionare solo se stravolgono il sistema nel suo insieme.

Tre pregi di Pillars of Eternity
Tre difetti di Pillars of Eternity
Ambientazione interessante e trama stimolante
Regolamento contorto e mal comunicato
Giocabilità di sicuro impatto sugli appassionati di vecchia data
Scrittura verbosa, prolissa e discontinua
Sistema grafico evocativo e poetico
Compagni di viaggio poco presenti e poco interattivi

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