Pillars of Eternity: The White March

L’espansione del GdR isometrico old style di Obsidian non manca di qualche elemento di interesse, ma ribadisce anche punto per punto le debolezze del prodotto di cui fa parte

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Esempio di gioco
Il nostro parere
La nostra collezione

1. I percorsi del crowdfunding
Uno dei problemi maggiori legati ai meccanismi del finanziamento dal basso di progetti legati non solo al mondo dell’intrattenimento digitale è la promessa compulsiva e sovrabbondante. Onde attirare quanti più fondi possibili, gli autori inanellano, durante la campagna di raccolta risorse, anticipazioni roboanti, che non sempre si concretizzano come dovrebbero. Succede in entrambi gli ambiti di cui siamo appassionati: i giochi da tavolo (quelli che escono da Kickstarter sono così palesemente over-produced da poter essere riconosciuti a miglia di distanza) e i videogiochi. Per quel che riguarda questi ultimi, a fare da apripista nel nostro sotto-genere prediletto fu proprio il gioco di cui torniamo a parlare: Pillars of Eternity (inizialmente chiamato Project Eternity) venne lanciato da Obsidian su Kickstarter nel 2012 con una campagna di finanziamento che a suo tempo batté ogni record. Il merito fu certamente della domanda presente tra gli appassionati per prodotti di un certo genere e dedicati a una certa nicchia, ma anche dell’abilità degli autori di solleticare entusiasmi e attese producendosi, appunto, in promesse di ogni tipo. È un processo che può rivelarsi un’arma a doppio taglio: da una parte i maggiori finanziamenti raccolti permettono di curare maggiormente il prodotto, dall’altra le feature ammonticchiate una sull’altra rischiano di diluire l’identità del manufatto, rendendolo poco coerente e ancor meno ‘centrato’. Pillars of Eternity, pubblicato nel 2015, tre anni dopo la raccolta fondi, esemplifica plasticamente quello che intendiamo: la struttura del gioco base mostra con evidenza che a una trama forte e serrata sono stati giustapposti senza soluzione di continuità elementi accessori e di contorno, quali la fortezza gestita dal giocatore, o lo sterminato dungeon a essa sottostante, entrambi frutto avvelenato delle promesse atte ad aumentare il sostegno in fase di finanziamento. L’apice del paradosso è rappresentato dall’espansione di cui ci apprestiamo a parlare: annunciata prima ancora che il gioco base vedesse la luce, così da poter essere aggiunta ai più prestigiosi tier dei pledge (queste arcane espressioni si riferiscono alle varie quote con cui ciascun finanziatore può scegliere di sostenere un determinato progetto), ha visto la luce, attraverso una pubblicazione in due tappe, nel 2015 e nel 2016. Annunciare una espansione prima ancora che il prodotto da espandere veda la luce sarebbe sembrata una presa in giro nell’epoca pre-Kickstarter: ora invece è la normalità.

2. Le lande gelide della Bianca Marcia
Tecnicamente, The White March è un add in, come Tales of the Sword Coast per Baldur’s Gate e come Heart of Winter per Icewind Dale. I nuovi contenuti, cioè, non espandono la trama principale, che rimane intoccata, ma aggiungono una corposa serie di missioni secondarie, quasi una seconda nuova trama, ambientata sullo sfondo di nuovi luoghi, collegati tra loro da una nuova mappa del mondo, alla quale, da un certo (precoce) punto in avanti, è possibile accedere in ogni momento. Abbiamo nominato Icewind Dale non a caso: più di un commentatore ha affermato che The White March sembra quasi un omaggio al capolavoro di Black Isle, etichetta sotto la quale si celavano tanti degli autori oggi in forze proprio in Obsidian. Anche The White March infatti è ambientata in territori gelidi e innevati, e anche in questo caso lo schema è quello consueto che vede il villaggio pacifico, di nome Stalwart, insidiato da forze oscure che vanno stanate all’interno di dungeon o in giro per le lande selvagge. Come dicevamo nell’introduzione, i nuovi contenuti aggiunti dall’espansione tradiscono la pubblicazione in due tappe: la vicenda narrata è divisa in due ‘capitoli’, separati astrattamente da un passaggio di tempo, che il giocatore deve concretizzare lasciando la Bianca Marcia e riposando almeno una volta nel Dyrwood, l’ambientazione del gioco originale. La prima parte della vicenda narrata ruota attorno alla necessità di ridare vita alla White Forge, una magica officina che forgia metallo dalle caratteristiche sovrannaturali, un tempo operata da una tribù nanica (i Pargrunen) misteriosamente scomparsa. La seconda parte ci mette di fronte a un’armata di soldati da Raedceras, stato teocratico già centrale nella vicenda narrata dal gioco base, radunatasi in un forte nei pressi della White Forge per cercare di conquistarne i poteri e di metterli al suo servizio. L’indagine porterà il protagonista a mettere in luce uno scontro ben più importante di una scaramuccia tra Stati, scontro che coinvolge nientemeno che alcune delle divinità del bizzarro pantheon di Eora.

3. La struttura del mondo e delle quest
Approfondiamo un po’ la natura dei nuovi contenuti. Come dicevamo sopra, c’è un nuovo villaggio, Stalwart, che funge da hub pacifico per l’ottenimento delle missioni. Da lì l’avventura porterà il nostro party a esplorare numerose zone selvagge e infine la meta conclusiva, che per la prima parte dell’avventura è la White Forge e per la seconda parte è il forte dei soldati Raedceras (e poi l’enigmatica Abbey of the Fallen Moon). Anche se qua e là non mancano le possibilità di infiltrare gli accampamenti nemici con travestimenti o sotterfugio, il più delle volte sarà necessario farsi strada falcidiando orde di creature ostili: il richiamo a Icewind Dale non trova ragione solo nell’ambientazione, ma anche nella natura essenzialmente da dungeon crawler che The White March esibisce quasi costantemente. Certo, non mancano le missioni originali e ‘pacifiche’: una delle più interessanti, per esempio, vede il protagonista, che è un watcher, cioè capace di ‘vedere’ le anime altrui anche nelle loro incarnazioni passate, ‘saggiare’ le anime di diversi abitanti del villaggio nella ricerca di un discendente dei Pargrunen, apprendendo e rivivendo, nel mentre, diverse storie degne di nota. Ma il grosso dell’impegno è diretto verso lo scontro fisico col nemico, e si tratta senza dubbio dell’elemento di maggiore debolezza di questa espansione, come anche del gioco base a cui essa si connette: approfondiremo meglio la faccenda in un capitoletto successivo.
Onde rendere gli scontri sempre all’altezza del livello del nostro partyThe White March implementa la possibilità di ‘livellare’ i propri contenuti a quelli dei personaggi giocanti: quando comincerà una parte dell’espansione, al giocatore verrà chiesto se intende avvalersi di questa possibilità o se preferisce lasciare le creature ostili al livello previsto dai programmatori. Se non affrontata con un party adeguatamente potente, l’espansione è molto ardua da completare: a venire in soccorso del giocatore c’è la possibilità di far periodicamente riposare il proprio gruppo di avventurieri, così da ‘ricaricarne’ le energie e le abilità, ma proprio come nel gioco base per accamparsi è necessario avere apposite provviste, la cui quantità massima accumulabile dipende dal livello di difficoltà. Va detto che purtroppo The White March soffre di un problema molto diffuso tra gli add in, quella estemporaneità nei collegamenti tematici e narrativi tra gioco base e nuovi contenuti che costringe a un approccio che potremmo definire a scatole infilate l’una nell’altra: la trama principale del gioco andrà interrotta, in un paio di occasioni, prima per cominciare e completare la prima parte dell’espansione, e poi per cominciare e completare la seconda parte dell’espansione. Una nota positiva, invece, è che The White March fa un utilizzo più vasto e mirato delle interazioni costruite sulla base di schermate statiche, presenti anche nel gioco originale ma utilizzate, in esso, con una certa parsimonia.

4. Novità nel Dyrwood
L’espansione introduce diverse novità anche nel gioco base, affinato peraltro, nel corso dei mesi successivi alla pubblicazione, anche da una serie di corpose patch. Dal punto di vista dei contenuti, l’aggiunta più importante prende le forme di una nuova, lunga questline, che vedrà il protagonista intento a indagare le misteriose ricerche del potente mago Concelhaut, rintanato nella fortezza presso le Crägholdt Bluffs, una inedita, ampia ambientazione da esplorare. La missione viene assegnata al watcher direttamente dallo stewart di Caed Nua, la fortezza sotto il controllo del personaggio giocante: sarà quindi praticamente impossibile ‘mancarla’. Molti giocatori, invece, potrebbero non scoprire mai che a questa prima missione se ne collega una seconda, assegnata dalla ‘lettura’ dell’anima di un assassino morto in quel di Stalwart: la nuova missione è collegata, a sua volta, a un’altra ampia area esplorabile nel Dyrwood, chiamata Mowrghek Îen. Queste nuove questline sono pensate per personaggi di livello molto alto: anche se la prima viene assegnata al protagonista piuttosto precocemente, sarà una buona idea attendere fino alle ultimissime fasi di gioco prima di cimentarvisi.
Un’altra novità degna di nota introdotta dall’espansione e sperimentabile lungo tutta l’avventura è rappresentata dai soulbound item. Si tratta di una nuova categoria di oggetti magici, identificata dal fondo bianco nell’icona dell’inventario: per sfruttarne le potenzialità, sarà necessario ‘connettere’ un oggetto di questa tipologia all’anima del personaggio che la utilizzerà. Questo renderà impossibile l’uso dell’oggetto da parte di altri personaggi, ma sbloccherà non solo le caratteristiche magiche di partenza, ma anche tutta una serie di caratteristiche ‘potenziali’, attivabili solo tramite particolari achievement. L’idea è davvero interessante: alcuni dei requisiti per migliorare gli oggetti soulbound sono veramente creativi e richiedono al giocatore attenzione e sforzi molto focalizzati. Il requisito più classico e frequente è utilizzare l’arma soulbound per uccidere una certa quantità di nemici, ma ci è capitato di imbatterci in oggetti che ci hanno chiesto, per esempio, di bere qualcosa in ognuno dei bar presenti nel gioco, o di dormire in un luogo molto specifico, o di interagire con una certa ambientazione non immediatamente chiara. La trovata è degna di interesse anche perché tenta di passar sopra all’univocità che hanno molte ambientazioni nel gioco originale, che ci richiede in un certo senso di ‘risolverle’ e poi dimenticarcene completamente, quando invece uno degli elementi più importanti nella costruzione di un mondo vivo e credibile è la necessità di visitare le stesse ambientazioni più volte e in circostanze differenti.
Come scrivevamo sopra, Pillars of Eternity è stato modificato in maniera importante anche da una serie di corpose patch correttive. Tra upgrade che meritano di essere citati ci sono il nuovo feedback grafico per incantesimi e abilità, che mostra l’area interessata dall’effetto, e anche la possibilità di utilizzare lo stealth solo con un membro del party e non con tutto il gruppo, come era originariamente.

Excursus: i nuovi compagni di viaggio

The White March offre tre nuovi personaggi arruolabili: i primi due sono stati introdotti dalla prima parte dell’espansione, il terzo dalla seconda (ma se entrambe sono installate i tre nuovi personaggi sono tutti disponibili fin da subito per chi accede alle nuove aree). I nuovi comprimari hanno battute personalizzate non solo per le vicende narrate nell’espansione ma anche per quelle presenti nel gioco base; va detto peraltro che, come abbiamo già avuto modo di affermare nella recensione di quest’ultimo, i compagni di viaggio di Pillars non sono particolarmente loquaci e interattivi. Un elemento interessante da sottolineare è che i tre nuovi comprimari ‘coprono’ le uniche tre classi lasciate ‘scoperte’ da quelli del gioco base.

Zahua è un monaco proveniente dalle savane di Ixamitl. Il watcher lo incontra in circostanze ben strane: rinchiuso dentro un barile di pesce vivo, alla ricerca di una visione che possa illuminarlo. Zahua segue una filosofia tutta basata sull’auto-flagellazione: questo lo porta a commentare in maniera bizzarra e contro-intuitiva molti eventi spiacevoli che avvengono durante l’avventura. Val la pena raccontare che questo personaggio ha una sua quest personale molto difficile da attivare: sarà necessario cominciare la seconda parte di The White March e parlargli, scegliendo nuovamente tutte le opzioni di dialogo disponibili, anche quelle apparentemente ‘chiuse’. Zahua è opera di Eric Fenstermaker.
Il Devil of Caroc è un golem di bronzo creato dall’animancer delle Valian Republics Mestre Galvino (curiosità: i buffi nomi valian sono conseguenza del fatto che le Valian Republics sono modellate sulla Repubblica di Venezia). L’anima innestata da Galvino nel golem appartiene a una donna pluriomicida condannata a morte dalla popolazione di Stalwart e in questo modo ‘salvata’ dall’animancer e trasformata in un suo servitore. Il watcher però può, in vari modi, ‘liberarla’ e convincerla a unirsi al party. Il Devil of Caroc è un rogue molto potente e alcune sue caratteristiche uniche, per esempio il fatto di non respirare e di non temere il freddo, torneranno utilissime in determinati frangenti della storia narrata da The White March. Questo personaggio è opera di Carrie Patel.
Maneha è un barbaro aumaua membro della setta religiosa nota come i Giftbearers of Ondra. Ondra è la divinità dei mari e degli oceani, ma sovrintende anche alla memoria: i Giftbearer si offrono di custodire oggetti e sensazioni che gravano sulla memoria, così da liberare quest’ultima dai pesi insostenibili. Maneha è alla ricerca di un luogo quasi mitico per la sua setta, la Abbey of the Fallen Moon, santuario che secondo la tradizione può cancellare anche i ricordi più terribili. Maneha è opera di Carrie Patel.

5. Identità incerte
Un’altra benvenuta novità introdotta in Pillars of Eternity è un inedito livello di difficoltà chiamato Story Time, collocato ancora più in basso rispetto al livello Easy e perfetto, come suggerisce il nome, per chi vuole concentrarsi sulla storia risolvendo rapidamente i numerosissimi combattimenti. Diciamo che è una novità benvenuta perché nella nostra seconda partita l’abbiamo utilizzata a piene mani: e già questo fatto, crediamo, dice molto sulla qualità dei combattimenti nel gioco di cui stiamo parlando.
Già nella recensione originale affrontammo il tema, ma è il caso di approfondire, perché l’argomento offre spunti di riflessione interessanti. A suo tempo ci lamentammo anzitutto della natura iper-regolata di Pillars of Eternity e delle criticità nelle spiegazioni delle innumerevoli variabili, eccezioni e combo: l’espansione aggiunge altra carne al fuoco, peggiorando ulteriormente una situazione che si può considerare come un esempio da manuale di inutile ipertrofia. Già questo è un punto degno di nota: generalmente sono i GdR action a esagerare nell’offrire all’utente decine di abilità e tonnellate di oggetti, ma in quel caso la scelta ha un senso, dato che quei giochi – si pensi ad esempio alla serie Diablo – si risolvono nella costruzione di un personaggio altamente personalizzato e nell’utilizzo creativo delle sue abilità in combattimento. Nei prodotti più story-driven, categoria a cui Pillars sicuramente appartiene, la personalizzazione del proprio alter ego è sicuramente importante, ma non è o non dovrebbe essere l’attività principale a cui ci si dedica, pena la dispersione eccessiva delle energie in ambiti che dovrebbero essere secondari rispetto alla pura e semplice interpretazione o anche all’esplorazione, e pena soprattutto l’esperienza eccessivamente frammentata in cui verrà a risolversi la trama, le storie.
Attenzione: questo non vuol dire necessariamente che i giochi story driven world driven non debbano mettere a disposizione tonnellate di oggetti. A essere dirimente è piuttosto il modo in cui all’utente è richiesto di interagire con questa offerta. In Baldur’s Gate, dopo ogni combattimento importante il party può raccogliere decine di oggetti: ma i limiti di ingombro e di peso trasportabile faranno sì che il giocatore selezioni attentamente il bottino, cercando al suo interno solo quell’oggetto preziosissimo il cui rinvenimento avrà dato senso e ragione alla difficoltà dello scontro. Pillars, dal canto suo, moltiplica all’infinito gli oggetti magici, tanto che quasi ogni creatura incontrata ne avrà almeno uno; a questa moltiplicazione si accompagna una caratterizzazione degli oggetti quanto meno riduttiva, tutta incentrata nelle statistiche, con la conseguente necessità per l’utente di dedicarsi ad estenuanti e ben poco appaganti confronti numerici; tutto questo, per di più, si affianca all’implementazione di un inventario virtualmente infinito, concretizzato sotto forma di un forziere ‘magico’ accessibile da qualunque punto dell’ambientazione e dotato, appunto, di capienza infinita. L’ovvia conseguenza di quanto appena descritto è che a ogni scontro seguirà la meticolosa raccolta di tutto quel che il nemico ha lasciato a terra e la susseguente noiosa sessione di aggiustamento degli oggetti equipaggiati, aggiustamento che avrà poi conseguenze nemmeno percettibili; dopo decine e decine di ore, quel che succederà sarà che l’utente raccoglierà tutto senza nemmeno guardare di cosa si tratta, e rivenderà tutto al primo mercante incontrato, diventando nell’arco di pochissime ore talmente ricco da ‘rompere’ completamente l’economia di gioco. Le scelte di design riguardanti l’equipaggiamento in Pillars sono discutibili non solo e non tanto perché scimmiottano la filosofia action completamente fuori contesto, ma soprattutto perché è il gioco stesso a suggerirti di ignorarle: un po’ come succede con le logorroiche descrizioni che arricchiscono i dialoghi, scritte in carattere grigio, così da ‘saltarle’ con più facilità.

6. La disfunzionalità inspiegabile (o quasi)
A rendere davvero poco godibili i combattimenti in Pillars of Eternity non è solo l’implementazione improvvida di oggetti e abilità, ma anche le stesse modalità ‘fisiche’ con cui avvengono gli scontri e che rendono questi ultimi confusi, fumosi, incomprensibili. Mai come in questa particolare fattispecie ci siamo trovati incerti se considerare tanti elementi come caratteristiche mal implementate, scelte dissennate o veri e propri bug. Proveremo a descrivere al meglio quel che non va nel sistema di combattimento del prodotto in oggetto, certi però che non ci sia nulla di meglio dell’esperienza diretta per comprendere quanto poco funzioni un meccanismo che dovrebbe fare del suo movimento perfetto il suo punto di forza.
Anzitutto: di default, quando inizia un combattimento il gioco rallenta lo scorrere del tempo, per rendere lo scontro più facile da gestire. Già questo è indice che qualcosa non va, visto che nei giochi che funzionano non si è mai sentito il bisogno di una funzionalità simile; senza contare che la ‘moviola’ rende ancora più pateticamente ridicole le animazioni di movimento dei personaggi. Durante la lotta, i membri del party rifiutano costantemente di eseguire gli ordini, rimanendo continuamente bloccati nella traiettoria per raggiungere la creatura ostile indicata come bersaglio: questo sembra un bug, ma è in realtà uno dei tanti effetti nefasti del cosiddetto engagement, cioè la regola secondo cui se si è di fianco a un nemico e ci si prova a ‘sganciare’, si deve subire una sorta di attacco di opportunità. I personaggi cercano di evitarlo, e come conseguenza rimangono fermi nonostante gli ordini, che vanno ripetuti diverse volte prima di vederli eseguiti. Una volta ottenuto a fatica di far attaccare il nemico individuato come il più pericoloso, il problema diventa cercare di capire come sta andando l’attacco, se sta andando a segno o meno. Che lo si riesca a capire guardando il combattimento sarebbe troppo semplice: i personaggi sono sempre troppo vicini, i feedback grafici si sovrappongono confusamente, i contorni delle creature si mimetizzano con i fondali, le urla di risposta dei membri del party ai nostri ordini si confondono con i rumori dei colpi affondati, col risultato che non ci capisce assolutamente nulla. Viene in aiuto una finestra in alto a sinistra, che compare quando passiamo il puntatore sui nemici e che ci indica se sono feriti, di quanto, quali caratteristiche hanno, quali resistenze hanno: il tutto con un appeal grafico che farebbe invidia a una tabella di Excel, piena di numeri e statistiche. Quando un personaggio cade privo di sensi, le creature ancora attive ci passano letteralmente sopra, rendendo talvolta impossibile selezionarlo. Se gli spazi sono angusti, i combattenti in corpo a corpo intrappolati nelle retrovie non riusciranno mai e poi mai a raggiungere la prima linea: vuoi per la caparbietà con cui gli arcieri improvvidamente in avanscoperta rifiutano di ‘sganciarsi’ dal nemico, vuoi per il terribilissimo pathfinding, che non sarebbe stato accettabile neanche in un gioco degli anni Novanta.
In un contesto come quello appena descritto, lo Story Time appare come una benedizione: se proprio ci si deve sorbire una serie di decine per non dire di centinaia di combattimenti implementati in questo modo, meglio che tutto passi il più in fretta possibile. E gli appassionati duri e puri, che nei forum si vantano di trovare il livello di difficoltà Normal troppo semplice (ovviamente), e che affermano anzi con sicumera che forse è troppo facile anche il Path of the Damned, cioè il livello più alto, vanno sinceramente compatiti: chi vuole di proposito spendere tempo ed energie per studiare e approfondire un sistema di combattimento così palesemente disfunzionale e mal implementato sta in un certo senso dichiarando al mondo di essere del tutto privo di qualsivoglia senso estetico.

7. Divagazioni filosofiche sulla trama (con importanti spoiler)
Nella recensione del gioco base, ci lamentammo del fatto che l’estensiva logorrea dei testi finiva per annacquarne la pregnanza: un’analisi più serrata delle vicende narrate dalla trama principale può aiutarci a mettere maggiormente a fuoco il problema e anche a individuare altre criticità nella narrazione, o forse dovremmo dire nel modo in cui quest’ultima viene ‘oggettivata’ tramite la parola.
La scioccante rivelazione offerta al giocatore e al suo alter ego nelle ultime fasi della vicenda, a cui facciamo vagamente cenno nella recensione originale lamentando il suo non essere adeguatamente spiegata e sfruttata, è la seguente: gli dei non esistono. L’elaborato pantheon di Eora, il mondo che fa da sfondo a Pillars, sarebbe costituito da creature sintetiche, costruite dagli Engwithan, popolazione estinta le cui vestigia spuntano in giro per le ambientazioni del gioco: questi progenitori della civiltà erano provetti animancer, cioè studiosi e manipolatori delle anime, e con i loro studi scoprirono che le divinità per le quali l’umanità da secoli combatteva semplicemente non esistevano. Temendo quindi che senza alcuna ‘guida’ metafisica l’umanità precipitasse nel caos, gli Engwithan crearono, utilizzando le anime di centinaia tra loro e facendole ‘assorbire’ da strane macchine come quella che il protagonista incontra all’inizio del gioco, le divinità dell’attuale pantheon del mondo. Il big villain Thaos è un Engwithan che ha prolungato la sua esistenza tramite l’animanzia e che sta cercando di bloccare l’avanzamento di quest’ultima proprio per evitare che i moderni animancer possano scoprire la verità sugli dei.
Torniamo al problema ‘comunicativo’ a cui alludevamo all’inizio. Nelle fasi finali dell’avventura, quando il nostro eroe sta per entrare nel Teir Evron, santuario nel quale è possibile comunicare direttamente con gli dei, un suo compagno di viaggio gli si rivolge e gli pone la seguente domanda: cosa ne pensi del fatto che ci hanno detto che gli dei potrebbero non esistere? Ci è capitato due volte di ‘passare’ attraverso questo momento e in entrambi i casi la nostra reazione è stata: cosa? Chi ce l’avrebbe detto? E quando? Questo ci sembra un esempio eclatante del modo in cui il testo di Pillars è incoerente e poco focalizzato: quella che dovrebbe essere la rivelazione del secolo è persa in un mare talmente vasto di dialoghi logorroici, descrizioni fini a se stesse, scambi vacui e auto-referenziali da quasi scomparire.
Quando finalmente il giocatore riesce a sfrondare i contenuti dalle superfetazioni e a concentrarsi sul vero oggetto del contendere, dovrà fare i conti con le inconsistenze più prettamente ‘filosofiche’. In molteplici circostanze, il protagonista interagisce con le divinità in modo molto diretto, quasi ‘concreto’: l’affermazione tranchant della nemica storica di Thaos, la sacerdotessa ‘eretica’ Iovara, secondo la quale gli dei “non esistono”, è dunque quantomeno opinabile. Sicuramente non esistono in quanto esseri metafisici, ma per chi abbraccia una filosofia razionalista e materialista questa affermazione è tautologica: è la metafisica in quanto tale a non esistere. Al contrario, nel gioco sembra proprio che gli dei esistano: non sono esseri metafisici, ed è per questo che esistono. Sono creature ‘artificiali’ ma dotate di una propria identità e di un proprio volere, e soprattutto sono capaci di influenzare la realtà materiale. Paradossalmente, si tratta degli dei più ‘esistenti’ che ci sia capitato di incontrare in una ambientazione di fantasia: che gli autori di questa ambientazione abbiano deciso di innestarvi come plot twist una quest filosofica apparentemente  tutta incentrata sull’esaltazione del pensiero razionale, dell’incredulità, oseremmo dire dell’ateismo teorico e pratico, è un azzardo. Perché il pensiero razionale che trovi il suo pilastro sul rifiuto della stampella psicologica rappresentata nella fede in creature onnipotenti ha senso e ragione solo se queste creature onnipotenti sono davvero inesistenti. Se le anime sono manipolabili ‘fisicamente’, se è possibile ‘vederle’ e trasferirle da un corpo all’altro, se è possibile ‘concentrarle’ in manufatti che diventano potenti e capaci di rispondere a preghiere e di influenzare il corso della Storia, l’incredulità e l’ateismo vanno completamente ri-calibrati e ri-pensati.
La nostra sensazione è che gli scrittori di Obsidian abbiano cercato di affrontare temi un po’ più grandi di loro e che abbiano finito per confondere due piani diversi. L’orgogliosa lotta per il pensiero razionale che fanno gli atei e più in generale gli ‘increduli’ del mondo d’oggi e di ieri è anzitutto lotta contro le credenze metafisiche: l’irrazionalità più grande è credere che esista ciò che non esiste. Nell’ambientazione del gioco, questo era il problema ‘scoperto’ a suo tempo dagli Engwithan e da loro ‘risolto’ con la costruzione, tramite l’animanzia, di divinità *vere*. La lotta intrapresa da Iovara e dai suoi seguaci ‘eretici’ non c’entra nulla con la lotta razionalista contro la metafisica: è, piuttosto, lotta contro il potere coercitivo esercitato dalle *vere* divinità create dagli Engwithan, e somiglia di più alla lotta dei sottoposti contro il sovrano despota. A nessuno verrebbe in mente di combattere contro il sovrano despota affermando che quest’ultimo “non esiste”: se non esistesse, non ci sarebbe bisogno di combatterne gli eccessi. L’illogicità della costruzione narrativa delle ultime fasi dell’avventura narrata da Pillars sta tutta qua.
Maneggiare la filosofia non è semplice, soprattutto se si sta costruendo un mondo fittizio che deve essere dotato di coerenza interna. Pensare di trasferire di peso le istanze del pensiero razionalista contemporaneo dentro un mondo fantasy dove esiste la magia e le anime sono manipolabili è sommamente ingenuo e può dar vita solo a inconsistenze e contraddizioni.

8. Conclusioni
The White March è, pur considerando le istanze che espandono il concept del gioco originale, un’espansione che offre al giocatore more of the same. Se il menu di Pillars of Eternity – fatto di tanti combattimenti, una discreta dose di esplorazione e lunghissimi dialoghi che non sempre arrivano al punto – vi soddisfaceva, vi soddisferà anche The White March. Noi pensiamo che tutto il progetto sia, a conti fatti e dopo molti mesi di perfezionamenti, una triste occasione mancata: lo sforzo senz’altro considerevole di mettere insieme un mondo fantasy nuovo di zecca profondo e sfaccettato, evocato peraltro tramite uno stile grafico di prim’ordine, e l’impegno profuso nel creare da zero un regolamento complesso potenzialmente interessantissimo si sono scontrati, ahinoi, con una concretizzazione in gran parte confusa, incoerente, ripiegata su se stessa. L’impressione generale è che le tante teste dietro a Pillars abbiano passato mesi per non dire anni a riflettere e a scrivere ma pochissimo tempo a testare o semplicemente a utilizzare quanto pensato e quanto scritto, come se l’utilizzabilità fosse secondaria rispetto al contenuto. Ma se il videogioco è l’arte interattiva per eccellenza, è anzitutto nel suo funzionamento pratico che dobbiamo cercarne la naturaCi spiace davvero dirlo, ma complessivamente Pillars of Eternity, secondo noi, funziona decisamente male, e comunque molto al di sotto di quel che ci si potrebbe aspettare.

Tre pregi di The White March Tre difetti di The White March
Le nuove vicende narrate hanno elementi di interesse Tanti, fin troppi, combattimenti
Lo stile grafico delle ambientazioni è davvero evocativo Ribadisce punto per punto tutti i difetti del gioco base
Gli oggetti soulbound sono un’idea niente male I collegamenti narrativi col gioco base sono incerti ed estemporanei

27 thoughts on “Pillars of Eternity: The White March”

  1. Il Più Antico

    Un’ altra ottima recensione che condivido in toto… Mi piacerebbe tanto conoscere il tuo parere su due o tre titoli che ho giocato in passato, ma credo che sia inopportuno chiederti “review on demand” ?

    1. Mosè Viero

      Grazie!
      Dimmi pure quali sono i giochi che ti piacerebbe vedere sul sito: non prometto niente ma non si sa mai!

      1. Il Più Antico

        Mi piacerebbe molto una tua disanima dei due Knights of the old republic (ho giocato il secondo da poco e mi è sembrato “MEH” rispetto al primo, nonostante lo abbia patchato con il mod che “ripristina” quanto tolto dalla Ossian e nonostante i pareri entusiasti letti in giro), Icewind Dale 2 finito anch’esso da pochissimo (la quarantena ha aiutato in questo senso) e Arcanum che adoro ma non tocco più da molti anni… Capisco che è tutta robaccia oramai vecchia!!

        1. Mosè Viero

          I due Knights of the Old Republic li ho nella libreria di Steam ma non li ho mai toccati, dato che l’ambientazione non mi ha mai preso più di tanto (lo so, questo sembrerà un’eresia per molti). Icewind Dale II l’ho giocato e finito a suo tempo, ma non l’ho più ripreso in mano, complice anche l’assenza di una Enhanced Edition. Quest’ultimo però ho intenzione di trattarlo nel sito, prima o poi. Per i KOTOR, chissà?

          1. Il Più Antico

            Ma no, personalmente pur piacendomi molto l’universo di guerre stellari credo che per qualcuno sia divenuto peggio dell’estremismo religioso.. il brutto è che ci sono varie fazioni a seconda di quello che è ritenuto degno delle loro fedi (dagli integralisti di episodio iv, v e vi agli adoratori di rogue one, ai salvatori della trilogia prequel e così via…). I giochi sono nello stile classico BioWare e potrai trovarci molte similitudini con altri loro titoli (da Mass effect, Dragon Age e Jade Empire), comunque richiedono parecchie ore x essere completati e spesso hanno delle parti, piene di scontri, messe apposta solo x allungare la storia in maniera discutibile (cosa che ho molto notato nel secondo episodio ad un certo punto non vedevo l’ora di concluderlo… L’assurdità raggiunge l’apice quando, verso la fine, apri una porta e dentro una stanza 2 metri x 2 trovi 3 sith e 2 fucilieri pressati x attaccarti! Il brutto è che la cosa si ripete a più riprese!).

          2. Mosè Viero

            Eh, la moltiplicazione degli scontri nelle ultime battute del gioco è un problema ahinoi molto diffuso. Anche l’idea stessa che ogni avventura debba finire con un grandioso combattimento la trovo ormai stucchevole. E se finisse invece con un bel dialogo, o anche solo con l’esplorazione di una nuova area? Ci sono mille modi per creare un climax, dopotutto.
            Ricordo che il primo KOTOR veniva talvolta criticato dicendo che era un Neverwinter Nights nello spazio. Sottoscriveresti questa affermazione?

  2. Complimenti Mosè!
    Anche se non ho giocato a PoE e relativa espansione ho apprezzato molto la recensione, come al solito, approfondita e motivata.
    Mi accodo alla richiesta, sebbene giudico abbastanza improbabile che venga “accontentato”, tra le righe ti sei già espresso in passato sulla tua “avversione” verso tali titoli.
    Sono un “tossicodipendente” dei giochi di Hidetaka Miyazaki e From Software, basti dire che ai tempi ho acquistato la PS4 per cimentarmi con Bloodborne!
    Ebbene sì, la mia richiesta è per Dark Souls 🙂
    Ricordo ancora la frustrazione del mio primo tentativo (nonostante lo giocassi col controller) passarono diversi mesi prima che lo affrontassi nuovamente, da allora un amore viscerale e (quasi) incondizionato!
    Angelo

    1. Mosè Viero

      Grazie DMAD!
      Ti dirò: la tua non è la prima richiesta che ricevo riguardo a Dark Souls. Come già dici tu, non credo che sia il mio genere: però tempo fa l’ho acquistato dato che era in saldo e quasi gratis. Quindi in futuro potrei provarlo, ma diciamo che ho altre priorità.

  3. T. R. Haysen

    Buongiorno Mosè! Spero di non pesare se mi accodo alle richieste di opinioni in pillole su giochi non (ancora?) recensiti. Mi piacerebbe sapere se ha provato il recente Tyranny, per quanto mi riguarda il più focalizzato nella triade di GDR isometrici su Unity. Sarà perché a differenza di Numenera e PoE non ha pretese di dissotterrare vecchie glorie per ammantarsi della loro autorità (contendendosele con altre saghe), sarà perché ha ricevuto un finanziamento tradizionale con un produttore serio alle spalle, ma non presenta la prolissità e auto-esaltazione dei suoi “cugino”. Se non lo avesse giocato, umilmente le consiglio di farlo, nasconde grandi qualità. Saluti e salute.

    1. Mosè Viero

      Buonasera T.R.Haysen!
      Ho provato Tyranny: lo presi a suo tempo poco dopo l’uscita, ma lo abbandonai presto perché preso da altro. Ho sicuramente intenzione di riprenderlo in mano, finirlo e recensirlo. Purtroppo non sono in grado di dare tempistiche precise. Quando lo provai mi colpì favorevolmente l’ampia intro narrativa interattiva, anche se l’impressione che il contesto non fosse ‘spiegato’ a sufficienza, che ebbi anche per PoE, era ancora presente.

  4. Il Più Antico

    Vorrei rispondere ma non appare l’opzione Replay sotto il tuo post Mosè…. Comunque non so dirti se Kotor sia simile a Neverwinter…. Ai tempi a causa di forti pregiudizi infantili sulla 3° edizione di D&d (ero della frangia estremista “Paladini mezzorchi giammai”) non lo giocai. L’ho giocato pochino su Android (acquistato all’uscita e perennemente installato sui miei dispositivi) sono arrivato alla fine del tutorial praticamente ma poi mi sono sempre dedicato ad altro…. X quanto ne so Neverwinter si gioca con un singolo PC e al massimo un comprimario, Kotor hai con te 2 NPC che ti seguono un pò come su Mass Effect o Dragon Age 2. Forse il paragone è con Neverwinter 2??

    1. Mosè Viero

      Ma Neverwinter Nights esiste anche su Android? Non l’ho mai saputo.
      Penso che all’epoca si facesse questo paragone soprattutto perché KOTOR usa lo stesso motore di gioco di NWN. Qual è il sistema di regolamento di KOTOR? È simile a D&D o è completamente diverso?

      1. Il Più Antico

        Si è uscito verso la fine del 2018, purtroppo ad opera della beamdog che è nota x aggiornare i suoi prodotti una volta ogni morte di papa… Non hanno ancora implementato l’italiano sul gioco come non l’hanno ancora fatto su siege of dragonspire e su Torment nonostante la tradizione sia disponibile da tempo (sui primi due titoli ho risolto con un paio di maneggi…). Il sistema è derivativo della 3° edizione con abilità e talenti ma molto più semplice perché ci sono solo 3 classi + 3 da cavaliere (in kotor 2 hanno inserito pure classi di prestigio ma sono una semplice evoluzione della classe base che cambia se si percorre il sentiero Jedi o quello Sith, per qualcuno è un grosso pregio io personalmente non ci vedo questa grande differenza!) inoltre la razza è solo umana!

  5. Mosè, dovresti seriamente prendere in considerazione la recensione di un certo Deus Ex. Intendo l’originale.
    Ritengo che in un sito come questo, non possa mancare l’analisi di uno dei videogiochi (non solo di ruolo) più amati e avvincenti di tutti i tempi.

    1. Mosè Viero

      Non sei il primo a chiedermelo. Non l’ho mai giocato, l’ambientazione non mi ha mai ispirato. Però tendo a seguire le richieste che mi fanno i lettori, quindi prima o poi lo prenderò in mano sicuramente.

      1. Siccome molto spesso le tue recensioni mi hanno convinto a provare giochi che in precedenza avevo snobbato (come Jade Empire e Risen 2), e che in seguito ho avuto modo di apprezzare, vorrei provare a renderti il favore dandoti un sincero consiglio : prova Deus Ex. So che è un gioco di 20 anni fa, ma credimi, ne vale la pena.
        Su Steam è anche disponibile un mod gratuito a nome Revision che aggiorna la grafica e aggiunge una pulita generale.
        Anche se non vai matto per il cyberpunk, secondo me non resterai deluso.

  6. Deus Ex è uno dei giochi più belli di sempre. Giocalo, non te ne pentirai, soprattutto se ti piace la libertà d’azione: ogni livello è completabile trovando strade alternative, che si sbloccano potenziando certe abilità, ma spesso anche solo esplorando attentamente gli scenari, per non parlare della varietà di approcci possibili, per esempio la possibilità di giocarlo tutto in maniera stealth, senza uccidere nessuno (non direttamente, almeno, e a questo proposito, ci sono delle chicche che non svelerò). Di conseguenza, la rigiocabilità è enorme, anche se il gioco non è propriamente lunghissimo per gli standard dei GDR (se lo vogliamo considerare tale, posizione che sostengo io, e non un ibrido): circa 25-30 ore.

    1. Mosè Viero

      Ciao Zapan!
      Con il tuo messaggio Deus Ex è ormai saldamente al secondo posto tra le vecchie glorie di cui mi si chiede una recensione (il primo è sempre Arcanum). Lo proverò e lo recensirò, è una promessa! 🙂

  7. T. R. Haysen

    Buonasera Mosè! Leggo che a breve ci delizierà con una recensione dell’eccellente Arcanum (a proposito, ha installato la patch non ufficiale da https://terra-arcanum.com/drog/uap.html ?) e ne sono lieto! Ma per quanto riguarda Deus Ex, so che mi attirerò delle antipatie, devo avvertirla di non aspettarsi granché. Opinione personale, certo, ma ritengo sia un prodotto davvero sopravvalutato, non all’altezza della sua fama da capolavoro assoluto, e, non uso la parola alla leggera, ormai sorpassato. Non mi riferisco ad aspetti dove l’obsolescenza è inevitabile come grafica o interattività degli ambienti, ma alla storia e giocabilità, veri indicatori di longevità che giochi anche più vecchi di Deus Ex hanno saputo conservare meglio. La prima è estremamente lineare e non presenta evoluzioni più complesse di poche linee di dialogo diverse in risposta all’approccio violento o meno del protagonista (unica scelta degna di nota demandata al giocatore); la seconda è sì in grado di regalare soddisfazioni, ma solo ed esclusivamente a patto di specializzarsi nella furtività, rifuggendo ogni illusione di “estrema libertà d’azione” in favore del percorso a tappe obbligate previsto dagli sviluppatori nella notte dei tempi. Gli scarni elementi GDR non leniscono la rigidità, essendo innanzitutto sbilanciati (spendere XP per nuotare un po’ meglio è vagamente utile in un paio di occasioni e basta) e in secondo luogo legati principalmente a punti fissi della trama quando i “biopotenziamenti” cardine della personalizzazione verranno elargiti o rinvenuti. Ma tutti questi difetti meccanici impallidiscono di fronte a IL problema principale di Deus Ex: i presupposti traballanti su cui si basa l’intreccio. Per concludere questa mia improvvida micro-pseudo-recensione scomodo la letteratura e cito Italo Calvino, secondo cui un vero classico non smette mai di insegnare ciò che si prefigge di insegnare; ebbene, qualunque messaggio Deus Ex intendesse trasmettere nel 2000 non risuona assolutamente oggi. Proprio come le sue più evidenti fonti di ispirazione, Matrix e X-Files, nacque agli albori di internet, quando la possibilità di connettersi con il mondo lasciava la fantascienza per la realtà, e un entusiasmo perfino infantile pervadeva le menti, con promesse di chissà che tenebrosi segreti finalmente svelati e sterminata libertà quale mai vista prima a portata di mano (e, senza spoiler, le battute finali di Deus Ex si dirigono decisamente in questa direzione); noi posteri sappiamo bene che nulla di trascendentale, in bene o in male, è poi accaduto, e ciò vizia irrimediabilmente come stucchevoli, passatiste, le prese di posizione dei personaggi della vicenda narrata. Finisco (finalmente!) sottolineando che il gioco non è disastroso, e vale la pena affrontarlo, ma con la giusta mentalità da fortunati contemporanei, abbracciandone le limitazioni come farebbe un moderno pilota nella cabina di un aereo della seconda guerra mondiale o un gourmet davanti a un piatto sperimentale anni ’70, e non appropriarci di alcuna dubbia lezione esso pretenda di impartire. Saluti e salute.

    1. Mosè Viero

      Grazie per la micro-pseudo-recensione T.R.Haysen! Quel che scrivi è molto interessante perché è la prima volta che sperimento una lettura un po’ disincantata di Deus Ex: certi giochi vengono mitizzati e col passare degli anni anziché diventare più facili da giudicare con adeguata prospettiva storica si trasformano in ‘intoccabili’. Mi riserverò di dire la mia a tempo debito.
      Quanto ad Arcanum, sicuramente vi “delizierò”, ma non credo sarà in tempi brevi. Ho troppo altro da fare prima, anzitutto completare il trasferimento dei vecchi contenuti (ma ci sono anche almeno due recensioni nuove in cantiere che hanno la precedenza, una è quasi completa).

      1. T. R. Haysen

        Be’, grazie per le belle parole Mosè! Onestamente, non sopporto le “vacche sacre”, in nessun ambito, è uno dei miei principali difetti. Rileggendomi però mi rendo conto di essere stato forse un po’ troppo caustico. Deus Ex non è affatto da stroncare in toto; sottoscrivo la mia convinzione che l’insieme è invecchiato malissimo, ma devo riconoscergli delle qualità oggettive: le mappe sono ben congegnate, positivamente intricate e ricche di tesori nascosti (a volte in bella vista), seppur indirizzati esclusivamente, lo ripeto, a giocatori volti allo stealth; e la critica socio-economica che sprizza da tutti i pori si è conservata pressoché intatta. Soprattutto perché non vi è un solo concetto veramente originale in essa, tratta com’è da vari autori storici, comunque debitamente riconosciuti, ma offre senz’altro spunti di riflessione. Mi fa molto piacere che nuovi (e “vecchi”) contenuti siano in arrivo su “la maschera”, e non intendevo assolutamente metterle fretta, se ho dato questa impressione mi scuso. Saluti e salute, ancora una volta.

    2. Ah-ha, tempo di reinstallare la “vacca sacra”.
      Il fatto è che anni fa ho perso una scommessa, e da allora, ogni volta che leggo una recensione negativa su Deus Ex, devo rigiocarci dall’inizio ai titoli di coda. In quindici anni sarà successo quattro volte, compresa quella in cui durante una tavola rotonda di aficionados di Shadowrun, qualcuno già avanti col bere se n’è uscito affermando che il titolo della Ion Storm fosse nient’altro che un banale derivato del gioco da tavolo della FASA.
      Poi, quando e se il nostro Mosè ci delizierà con la sua analisi personale, magari mi deciderò ad aggiungere il mio modesto parere sull’attualità o meno dei temi affrontati nel summenzionato prodotto videoludico, oltre alla qualità della sua sceneggiatura e a un paio di altre cosette.

      1. T. R. Haysen

        Buonasera Warren (Spector?)! Non ho altro da aggiungere a quanto già detto nel commento originale e parzialmente rivisto al ribasso nei 2 successivi, scrivo solo perché sento di dover chiarire la mia metafora sulle “vacche sacre”: l’enfasi non va su “vacche”, potenziale insulto, bensì su “sacre”, ed è riferito alla religione induista, nella quale le mucche, vacche, bovini o come vogliamo chiamarle sono ritenute intoccabili, perfino inavvicinabili dai non iniziati, con pene severissime per i trasgressori. Ed è proprio questa prerogativa che detesto: sono un tipo che non può fare a meno di mettere tutto in discussione, se stesso compreso, e sentirmi dire “ipse dixit” oppure ” lo sanno tutti” per troncare un discorso contrario non mi va giù. Mi congratulo per la sua nuova partita, probabilmente seguirò il suo esempio e ne inizierò anch’io un’altra col mod Revision, e sono certo che entrambi ci divertiremo moltissimo (il testo può apparire ironico, lo so, ma sono serio). Non mi esprimo su Shadowrun, non lo conosco. Chiudo con un classico: saluti e salute.

  8. … non so se darti del tu oppure del lei?
    Vada per l’informale 🙂
    Ho letto con interesse le tue opinioni riguardo Deus Ex, non l’ho mai giocato (la grafica e la prima persona mi hanno sempre tenuto distante).
    Mi sono però cimentato con Human Revolution, la critica lo ha considerato inferiore, personalmente, pur non essendo il mio genere e in soggettiva, non mi è dispiaciuto, tu lo hai giocato? Eventualmente sapresti condesare in poche “osservazioni” le differenze principali?
    Per quanto riguarda le “vacche” o i “mostri” sacri ognuno di noi ne ha, hai citato uno dei miei scrittori italiani preferiti e ciò mi ha fatto enormemente piacere. Buona serata 🙂

    1. T. R. Haysen

      Mi fa piacere aver provocato delle riflessioni, e sì diamoci del tu, do del lei a Mosè perché è il padrone di casa…
      Brevemente, sì ho completato Human Revolution più di una volta e francamente lo reputo superiore all’originale, se non nella carica rivoluzionaria da fuoriclasse, almeno dal punto di vista, come dire, “etico”. Il perno su cui ruota l’intreccio, ovvero il concetto di umanità, è piuttosto trito, ma affrontato con un certo equilibrio e soprattutto sempre attuale; HR lo declina in chiave cibernetica ma senza sottrarsi a letture più sottili (la città di hengsha è in pratica un piccolo saggio sull’alveare umano). Un grosso svarione è, secondo me, l’eccessiva, apocalittica importanza attribuita al protagonista: J. C. Denton era solo un ingranaggio in una storia più grande di lui, ma Adam è fondamentalmente un superuomo, anche tralasciando gli arti robot, e mette costantemente in ombra il mondo e i suoi abitanti con la sua ingombrante presenza. Poi, un maggiore distacco nell’affrontare la discussione “innesti sì o no” non avrebbe guastato. Ovviamente il gameplay è svariate spanne superiore a Deus Ex, con possibilità a questo precluse come l’uso estensivo delle coperture e un uso maggiore dei potenziamenti nei dialoghi, nell’esplorazione e nel combattimento. Rinnovo i ringraziamenti, ma voglio mettere in chiaro che non intendo assolutamente rubare il mestiere a Mosè; questi miei “sfoghi” sono scritti perlopiù per me stesso, non ho la stoffa del recensore e sicuramente mi sono esposto a mille confutazioni legittime esprimendomi con cotanta veemenza. E poi, povero White March! Ignorato nella sua stessa pagina (occhiolino occhiolino)
      Grazie mille a Mosè che ci concede uno spazio così stimolante dove confrontarci. Saluti e salute a tutti.

  9. Grazie per l’esauriente risposta,
    è un piacere leggere le tue parole e sinceramente ritengo riassunto in poche osservazioni pregi e difetti di Human Revolution.
    Già in un post precedente avevo ringraziato Mosè per lo spazio che ci concede, credo faccia piacere pure a lui che i suoi “fedeli” lettori si confrontino civilmente ed educatamente anche su temi non attinenti la recensione in oggetto.

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