Hard to be a God

Dagli autori russi di Burut Games arriva un gioco passato senza clamore sotto gli occhi della critica, anzi talvolta violentemente stroncato. Peccato, perché secondo noi è forse la più grande sorpresa dell’anno appena trascorso.

[articolo originariamente pubblicato il 9 gennaio 2009]

1. Il dito e la luna
Recensire un gioco che arriva da una casa di sviluppo nota e apprezzata, di cui è stato detto già tanto prima ancora della pubblicazione, sul quale aleggia una spasmodica attesa da parte dei fan, è facile o difficile? È opinione diffusa che non sia semplice valutare per quello che è un prodotto che ha già diviso gli appassionati in tifoserie contrapposte prima ancora di vedere gli scaffali. Eppure, la situazione opposta è forse ancora più complicata. Ci sono giochi di cui non parla nessuno, magari perché sviluppati da studi semi-sconosciuti, provenienti da paesi lontani, magari semplicemente poveri di ambizioni rispetto ai colossi del settore. La tentazione, di fronte a prodotti di questo tipo, è decidere di dedicarci poco tempo (e poco spazio) prima ancora di averli visti; decidere preventivamente che non possono essere all’altezza dei “grandi”; decidere, cosa ancora peggiore, di giocarli solo per pochi minuti, pensando che nessun giocatore serio sia disposto a passar sopra a incertezze grafiche, ambientazione (apparentemente) generica, sistema di combattimento zoppicante, personalizzazione del protagonista minima. Eppure, per quanto si possa faticare a crederlo, tutti questi elementi possono apparire, nella felice alchimia creata da una storia appassionante e ben raccontata, come stupidi dettagli. Il gioco di cui ci apprestiamo a parlare può essere stroncato senza appello solo da una critica frettolosa e classista, solo da chi è incapace di guardare in profondità, solo da chi giudica buono un libro più per la rilegatura che non per quello che ci è stampato dentro.

2. Panoramica
Hard to be a God viene descritto dalla quasi totalità della critica (e anche dai suoi autori) come un GdR action; già questa primissima definizione, però, è fuorviante. O meglio, può essere accettata solo se intesa in un certo senso. Se per gioco action intendiamo un gioco dove i combattimenti sono veloci e adrenalinici, allora Hard to be a God può rientrare, pur con i distinguo che faremo più avanti, nella categoria. Se però con il termine action vogliamo indicare un gioco in cui gli scontri col nemico hanno la preponderanza sul resto, allora siamo totalmente fuori strada. Il prodotto di Burut cala il suo carico maggiore nel momento in cui ci porta per mano all’interno di una storia articolata e complessa, svolta prevalentemente attraverso dialoghi ottimamente scritti, anche se purtroppo privi di rilevante libertà di scelta. I diversi momenti in cui si snoda la vicenda hanno luogo all’interno di mappe di dimensione varia, talvolta complesse e ricche di aree opzionali aperte all’esplorazione, collegate tra loro da punti di passaggio e sovente popolate da creature ostili da sconfiggere.
Il giocatore è chiamato a impersonare un eroe predefinito, che parte nell’anonimo ruolo di agente imperiale per diventare alla fine l’elemento decisivo per quanto riguarda le sorti del mondo innominato in cui si snoda la vicenda: la visuale è isometrica e non mancano tutti gli elementi che costituiscono la classica ossatura del GDR quali inventario, schermata delle caratteristiche e diario delle missioni. La missione principale, nella cui risoluzione spenderemo gran parte del tempo, è affiancata da poche e insignificanti missioni secondarie. Cominciamo dunque ad analizzare il gioco dalla sua portata principale, se non l’unica: la trama unita alla magnifica ambientazione.

3. Radici letterarie
L’ambientazione di Hard to be a God non è una creazione originale: è stata pensata negli anni Sessanta da due noti scrittori russi, Arkady e Boris Strugatsky, e fa da sfondo al romanzo che si intitola come il gioco e che in Unione Sovietica ha avuto un successo notevole (è stato tradotto e pubblicato in inglese nel 1973, ed esiste anche un’edizione italiana a cura di Marcos y Marcos intitolata È difficile essere un Dio). Il fatto che questa ambientazione e la trama del romanzo siano patrimonio comune nell’est Europa è testimoniato dall’assoluta mancanza di tatto nel rivelarne, anche nel manuale del gioco stesso, i punti cardine: evidentemente non c’è pericolo di spoiler, un po’ come sarebbe in Italia rivelare la trama de I Promessi Sposi. Gli autori, però, non hanno considerato il fatto che all’estero il romanzo non è così conosciuto: leggere il manuale del gioco o qualunque articolo che ne parla significa quindi correre il rischio di vedere completamente rovinata la principale rivelazione a cui deve sottostare l’ignaro alter ego del giocatore nel momento culmine della vicenda. D’altra parte, tale rivelazione è il colpo di genio maggiore dell’ambientazione e passarci sopra significherebbe non parlare del lato migliore del gioco che stiamo analizzando. Quindi immediatamente qui sotto ne parleremo: se volete evitare spoiler passate oltre!

ATTENZIONE! SPOILER!

Il libro è ambientato in un imprecisato pianeta alieno, popolato da un’umanità identica a quella terrestre, che sta attraversando una fase storica del tutto simile al nostro Medioevo. I terrestri, grazie al loro sviluppo tecnologico, sono riusciti a scoprire l’esistenza di questo pianeta e anche a visitarlo sotto mentite spoglie; alcuni di loro vivono sul pianeta con il ruolo di “osservatori”, con lo scopo di decidere se aiutare gli autoctoni con la tecnologia o lasciare che la storia faccia il suo corso. Protagonista del libro è Don Rumata, uno dei terrestri calatosi nei panni di signorotto feudale e messo a dura prova dalla necessità di non abusare della tecnologia nelle contese che scuotono il nuovo mondo. Il gioco è ambientato subito dopo gli eventi narrati nel libro: il giocatore viene calato nei panni di un anonimo agente imperiale, incaricato di assassinare tale Arata e di indagare proprio sullo scomparso Don Rumata. Attraverso vicende molto intricate e con un susseguirsi di scioccanti rivelazioni, il nostro alter ego scopre l’esistenza dei terrestri e le loro potentissime armi, e dovrà usarle per risolvere il vero problema che attanaglia il nuovo mondo, ossia la sua apparente incapacità congenita di andare oltre un Medioevo che dura da millenni, peraltro infiammato, negli ultimi tempi, da una sospetta recrudescenza dell’estremismo religioso.

FINE SPOILER!

4. Giocabilità
In Hard to be a God il giocatore può controllare solamente il suo alter ego, presentato sempre al centro della visuale, che si sposta assieme a lui. Portando il mouse ai margini dello schermo, la telecamera viene ruotata; esiste anche una funzione di zoom, peraltro non molto utile. Lo spostamento avviene attraverso i tasti WASD, mentre l’interazione col mondo è gestita con il mouse; nelle mappe, gli elementi con cui è possibile interagire sono generalmente scarsi (casse, barili, personaggi non giocanti e poco altro). Le mappe sono solitamente caratterizzate da zone selvagge popolate da creature ostili e da zone civilizzate con villaggi o castelli; talvolta è possibile entrare in taluni edifici, e l’interno viene mostrato direttamente attraverso una sorta di spaccato, senza schermate di caricamento. Le diverse mappe sono collegate tra loro da punti di passaggio, attraversando i quali si viene trasferiti nella mappa del mondo e da lì in qualunque altra destinazione già scoperta; spesso, però, il gioco ci trasferisce direttamente nella mappa in cui è necessario recarci per proseguire con la trama (le mappe, peraltro, vengono scoperte solo proseguendo nella medesima e non semplicemente vagando a caso).
Quando si viene attaccati, è necessario sguainare l’arma premendo il tasto TAB; a quel punto il clic sinistro del mouse governa l’attacco normale, mentre il clic destro l’attacco speciale selezionato in quel momento; la barra spaziatrice attiva invece la parata, che può essere eseguita sia con uno scudo sia con l’arma stessa. In qualunque momento è possibile mettere in pausa aprendo una schermata qualunque (inventario, diario) ma durante la pausa non si possono dare ordini al personaggio; gli si può però far bere qualche provvidenziale pozione curativa. Ogni attacco, sia andato a segno sia andato a vuoto, consuma un certo quantitativo di stamina; una volta che questa giunge allo zero, non sarà più possibile continuare con gli attacchi, ma basterà aspettare qualche secondo per vedere la sua barra ricaricarsi completamente. La salute, invece, si recupera solamente mangiando cibo o bevendo pozioni (il gioco non contempla la possibilità di riposare). Il clic su un NPC attiva il dialogo: i personaggi generici pronunceranno una singola frase, che comparirà scritta in una finestrella in alto; i personaggi più importanti invece hanno dialoghi estesi e sono interamente doppiati; parlando con loro, la visuale zoomerà sui due dialoganti (talvolta assumendo posizioni assurde a causa degli elementi circostanti).
Il passaggio da una frase alla successiva avviene attraverso una stranamente complessa teoria di clic destri e sinistri col mouse; talvolta il nostro alter ego può intervenire, ma la scelta multipla è presente solo in rarissime circostanze. Oltre che esplorando, combattendo e parlando, passeremo il tempo commerciando con i mercanti sparsi per le mappe: ce ne sono specializzati in armi e specializzati in vestiti e cibo/pozioni. Soprattutto nelle fasi iniziali, i soldi scarseggiano parecchio e per accumularne a sufficienza è necessario vendere qualunque oggetto ci capiti a tiro, con notevole dispendio di energie; nelle fasi avanzate, però, impareremo a usare quasi sempre l’apposito tasto che ci consente di recuperare, dai cadaveri nemici, solamente il denaro. Alcuni oggetti sono “magici” (il termine in realtà è improprio, ma non spiego per non spoilerare) nel senso che aumentano alcune caratteristiche: sono però incredibilmente rari, spesso nascosti molto bene, e in ogni caso potremo metterci le mani sopra solo nelle ultime fasi della partita.
La difficoltà è calibrata in modo accettabile, anche se nelle prime fasi il personaggio è estremamente debole e può morire in seguito a qualunque scontro; l’assenza di grandi variabili nei combattimenti causa peraltro una sensazione di precoce deja-vu che rende non sempre piacevoli le scorribande su strade di campagna infestate da briganti. In generale, si percepisce un netto stacco qualitativo tra l’elaborazione dell’ambientazione e della trama, la cura per la struttura delle mappe, l’attenzione verso la distribuzione intelligente degli oggetti, e l’approssimazione della parte action, oltre che, come vedremo, del comparto tecnico.

5. Lo sviluppo del personaggio
Rispetto ai giochi di ruolo di maggior caratura, la gestione del personaggio e delle sue abilità in Hard to be a God è ridotta ai minimi termini. Esistono tre abilità con le armi (leggere, medie e pesanti) e cinque abilità secondarie (salute, stamina, medicina, diplomazia e armi a distanza); ad ogni passaggio di livello, si otterrà un punto da distribuire tra le abilità principali e due punti da distribuire tra quelle secondarie; le prime possono arrivare al massimo al decimo livello, le seconde al quindicesimo. Raggiungere il massimo livello nell’uso di una categoria di armi è faccenda abbastanza semplice; verso la fine della partita, non sarà strano aver raggiunto il massimo in ogni ambito possibile. Con l’aumento delle abilità primarie, verranno sbloccati, a determinati livelli, attacchi speciali che possono essere assegnati al pulsante destro del mouse: ce ne sono quattro per ogni arma, ma il loro effetto è sempre piuttosto simile (si tratta in pratica di un attacco potenziato, in grado solitamente di uccidere uno o più nemici in un colpo solo). Ciascun attacco speciale ha un tempo di ricarica, quindi generalmente se ne potrà usare uno solo in ogni combattimento. Il fatto che non esistano attacchi speciali per le armi a distanza (essendo queste ultime collegate a un’abilità secondaria e non principale) le rende automaticamente “di serie B” rispetto alle armi in corpo a corpo; c’è da dire, però, che nelle ultimissime fasi di gioco le armi più potenti saranno proprio quelle a distanza.
Talvolta, un attacco speciale può far svenire un nemico; in quel caso bisogna agire su di lui con il “colpo di grazia” (tasto centrale del mouse) per eliminarlo indipendentemente dai punti ferita rimastigli. Le abilità secondarie non aggiungono molte possibilità di personalizzazione: salute e stamina si limitano ad aumentare rispettivamente i punti ferita e la stamina del protagonista (obiettivo raggiungibile anche mangiando alcune erbe speciali), mentre medicina aumenta l’efficacia del cibo e delle pozioni curative. Più interessante è l’abilità diplomazia, che in teoria offre nuove possibilità nei dialoghi: in realtà si tratta di una opzione presente in punti talmente rari da rendere poco saggio investire in questa abilità. Molto più curiosa e originale è invece la possibilità di travestire il proprio personaggio facendogli indossare gli abiti di qualche fazione presente nel gioco. Travestendoci da bandito, per esempio, non verremo attaccati dai banditi, ma verremo attaccati dalle guardie cittadine, che al contrario saranno amichevoli se non avremo alcun travestimento particolare. Questa trovata, che apparentemente sembra aprire la porta a notevoli sperimentazioni, in realtà viene governata dalle esigenze della trama principale, sempre e più che mai il vero cardine attorno a cui ruota il gioco: sarà necessario, per esempio, vestirsi da nobile per far sì che quel nobile con cui ci serve parlare ci rivolga la parola.

6. Tecnicismi
Dal punto di vista tecnico, Hard to be a God è decisamente scarso. Il problema non è tanto la qualità della grafica o delle musiche, quanto l’implementazione dei vari aspetti. Le atmosfere delle mappe non sono disprezzabili: le zone boscose sono piene di arbusti diversi, tutti animati in modo credibile; le città sono ricchissime di dettagli; l’acqua in particolare è davvero notevole, con riflessi realizzati ottimamente e le onde che si frangono sulla spiaggia. I personaggi e le creature, al contrario, sono rozzi e poco definiti, e anche le texture si attestano su livelli molto bassi (la cosa si nota soprattutto durante lo zoom dei dialoghi, che purtroppo non si può disattivare). Le inconsistenze e le compenetrazioni tra poligoni sono ahinoi all’ordine del giorno, anzi del minuto: la visualizzazione dei mantelli è problematica e dà vita ad artefatti che si allungano su tutto lo schermo; i personaggi rimangono talvolta incastrati tra gli elementi dello scenario; nei casi in cui dovremo farci seguire da qualcuno, il pathfinding ci farà alzare gli occhi al cielo diverse volte.
L’intelligenza artificiale praticamente non esiste: i nemici attaccano a testa bassa senza usare alcuna tattica particolare e i PnG rimangono sempre nella stessa posizione o vagano in un’area ristretta, senza cambiare occupazione o atteggiamento né a seconda dell’ora del giorno né a seconda del clima; gli eventi che fanno da cornice alla trama sono tutti rigorosamente scriptati o svolti attraverso sequenze cinematiche in-game e a volte risultano come staccati dal contesto. Mal ottimizzata è anche la gestione delle risorse di sistema: il frame rate risulta più altalenante di quello che ci si aspetterebbe, anche su sistemi di media potenza, soprattutto tenendo conto che la grafica globalmente non può certo dirsi all’avanguardia. I problemi tecnici di questo gioco, in realtà, non sono nulla di più grave di quel che si vede a proposito di titoli anche molto più noti e acclamati, almeno al momento della pubblicazione; il problema è che Hard to be a God sembra essere stato del tutto abbandonato dai suoi autori.
Non esistono patch correttive, il sito ufficiale è stringatissimo e non è mai stato aggiornato, e mancano anche forum internazionali abbastanza frequentati per chiedere aiuto ad altri giocatori. Insomma, l’acquirente è lasciato nella solitudine più totale e deve risolversi eventuali problemi con le sue forze. Più rosea è la situazione dal punto di vista audio: a fronte di effetti sonori essenziali, le musiche sono piacevoli e molto ben orchestrate, anche se tendono a ripetersi con frequenza. Il doppiaggio, invece, si attesta su buoni livelli.

7. Conclusioni
Hard to be a God non è certo un capolavoro, ma rimane una gradita sorpresa. Le sue innumerevoli imperfezioni e la sua sostanziale inconsistenza sul lato puramente ludico tradiscono la scarsa esperienza degli sviluppatori e il budget modesto che questi hanno avuto a disposizione in fase di creazione. Eppure, ogni appassionato di belle storie dovrebbe come minimo prenderlo in considerazione, soprattutto tenendo conto che si trova già facilmente a prezzo molto basso. Se si riesce ad andare oltre l’inizio lento e apparentemente anonimo e i succitati numerosi difetti, si potrà gustare una storia ricca e interessante, piena di colpi di genio e di spunti di riflessione non comuni. Visto lo scarso spessore mostrato dalla maggior parte dei prodotti dell’industria videoludica proprio in quest’ambito, Hard to be a God risulta una piacevole, seppur irrisolta, eccezione, e i suoi dialoghi chilometrici una ammirevole forma di moderna eresia.

Tre pregi di Hard to be a God Tre difetti di Hard to be a God
Ambientazione e trama curati e appassionanti Tecnicamente scarso
Lungo e contorto Parte action poco fusa col resto del gioco
Dialoghi e missioni ben scritti Totalmente privo di feedback e supporto

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