Fallout New Vegas: Old World Blues

Con la terza mini (si fa per dire) espansione per Fallout New Vegas, Obsidian e Bethesda mostrano al mondo come interpretare e utilizzare al meglio l’idea del contenuto scaricabile. Speriamo che l’esempio venga seguito.

[articolo originariamente pubblicato il 23 agosto 2011]

1. L’eterna fortuna del post-apocalittico
L’appassionato videogiocatore ha certo molte occasioni per lamentarsi, ma la comprensibile tendenza a concentrarsi sulle numerose mancanze di tanti prodotti non deve impedirci di vedere quel che invece va a gonfie vele. Ci permettiamo di inserire in questa fattispecie il mondo di Fallout, già protagonista di due mitizzati videogiochi di ruolo usciti nella seconda metà degli anni Novanta, in piena epoca ‘rinascimentale’, e poi brillantemente recuperata prima da un gruppo di sviluppatori totalmente estraneo alle sue origini, ossia Bethesda (con Fallout 3), e poi da una parte consistente dei suoi creatori, oggi riuniti sotto l’etichetta di Obsidian (con Fallout: New Vegas). Tanti grandi nomi dell’industria videoludica, da Tim Cain a Todd Howard, da Emil Pagliarulo a Chris Avellone, hanno avuto modo di confrontarsi con una delle ambientazioni più amate da diverse generazioni di appassionati, e di indagarla in lungo e in largo, anche recuperando tante idee che il fluire degli eventi aveva inizialmente destinato all’accantonamento (basti pensare al cosiddetto Van Buren, ossia al terzo capitolo della serie inizialmente commissionato da Interplay e poi mai uscito causa chiusura dell’Interplay medesima).
Se contiamo ogni singolo prodotto ispirato al mondo retro-futurista più famoso della storia del videogioco, l’opera che stiamo per esaminare è nientemeno che la numero tredici: e, pur con tutte le oscillazioni che una storia così lunga e complessa comporta, si tratta sempre di prodotti di una certa qualità. Old World Blues, la terza espansione per Fallout: New Vegas, è, lo diciamo subito, di qualità ottima: la profondità dei suoi contenuti e il dettaglio della nuova area sono del tutto paragonabili a quelli del gioco base, e trattengono un’originalità e uno spessore autorale che solo un ingegno come quello di Avellone e dei suoi compagni di lavoro possono produrre. Vediamo più nel dettaglio di cosa si tratta.

2. Scienziati pazzi
Prima dello scoppio della guerra che avrebbe ridotto in macerie gran parte del mondo occidentale, all’interno di una imprecisata montagna del Nevada, si trovava un importante centro di ricerche, chiamato Big Mountain Research and Development Center. Di proprietà privata ma con numerosi contratti di collaborazione con enti pubblici, primo tra tutti l’esercito americano, il cosiddetto Big MT (abbreviazione per Big Mountain ma spesso storpiato in Big Empty, il Grande Vuoto, a causa dell’identica pronuncia) aveva come scopo principale la sperimentazione di armi e medicinali pericolosi, attraverso procedure che oltrepassavano con frequenza i confini della legalità e dell’etica. Spesso questi esperimenti provocavano conseguenze allarmanti, che però non fermavano gli scienziati all’opera nei laboratori sotterranei, sostenuti anche da cospicui finanziamenti da parte di multinazionali e di politici senza scrupoli: uno di questi esperimenti causò la vaporizzazione quasi dell’intera montagna, trasformandola in una specie di enorme cratere, il cui spazio venne prontamente occupato da nuove strutture utili alle ricerche.
I tanti danni causati dalle azioni spesso sconsiderate degli scienziati occupati presso il Big MT si accompagnarono anche a importanti e positive scoperte sul fronte delle nuove tecnologie: uno degli acquirenti e finanziatori principali del centro, tale Frederick Sinclair, ottenne la possibilità di utilizzarne molte in cambio della concessione del suo casinò, il Sierra Madre, quale terreno per nuove sperimentazioni da parte degli scienziati (l’effetto di queste sperimentazioni può essere toccato con mano dal giocatore nell’espansione Dead Money). L’avvento del conflitto nucleare non pose fine alle attività del Big MT: anzi, le menti più importanti del centro, riunite nel cosiddetto Think Tank, riuscirono a garantirsi una sorta di immortalità trasformandosi in robot vagamente antropomorfi. Una unità meccanica centrale custodisce il cervello, immerso in un liquido biologico che ne garantisce la conservazione; da questa unità si dipartono tre bracci, ciascuno dei quali termina in un monitor, visualizzante i due occhi o la bocca dello scienziato virtuale; un riproduttore vocale garantisce la possibilità di comunicare, mentre gli spostamenti sono gestiti grazie a una non meglio precisata forma di levitazione. Con l’abbandono del proprio corpo, i membri del Think Tank perdono progressivamente la percezione delle proprie sensazioni fisiche, cadendo in alcuni casi vittime di vere e proprie ossessioni o paranoie, fondate su una sorta di freudiano ricordo del pathos provato nel passato. Questo rende i loro esperimenti sempre più crudeli e insensati: talmente crudeli e insensati che a un certo punto un membro del Think Tank decide di prendere in mano la situazione e di cercare di impedire che la follia dei suoi compagni possa coinvolgere anche i territori che si estendono al di fuori del cratere.
Se andassimo avanti con il racconto, romperemmo un po’ troppo la sorpresa di scoprire progressivamente la storia e il destino del Big MT. Ci limiteremo dunque a evocare la situazione iniziale in cui il giocatore viene a trovarsi col suo alter ego: una volta installata l’espansione e seguito l’immancabile segnale captato dal Pip-boy, il nostro eroe verrà letteralmente ‘rapito’ dal Think Tank, trasportato nel Big MT e privato del suo cuore, del suo cervello e della sua spina dorsale. Per motivi inizialmente ignoti, il nostro alter ego manterrà quasi tutte le sue capacità originarie, ma si troverà intrappolato nel Big MT e quindi costretto a seguire gli ordini dei pazzoidi membri del Think Tank, che a quanto pare sono in guerra con un misterioso nemico. L’esplorazione meticolosa del cratere porterà a interessanti scoperte, ma l’obiettivo finale è, naturalmente, rientrare in possesso dei propri organi e ottenere la possibilità di tornare liberamente nel Mojave.

3. Tutto si spiega
Dal punto di vista della giocabilità, Old World Blues si posiziona a metà strada tra le claustrofobie di Dead Money e le scampagnate spensierate di Honest Hearts: il cratere di Big MT è una grande area circolare nella quale si può spaziare senza soluzione di continuità, ma al cui interno si celano caverne e laboratori nei quali occorre prestare grande attenzione a ogni minimo passo. Al centro dell’invaso si trova una grande costruzione che funge da punto di riferimento per tutta l’avventura: al suo interno operano le folli menti del Think Tank, ma le ombre dell’enorme cupola celano anche una sorta di laboratorio multifunzione chiamato Sink. Il nostro eroe lo troverà abbandonato e ‘spento’: ma potrà riattivarlo ritrovando in giro per il cratere i file con le ‘personalità’ delle sue varie componenti, il ritrovamento dei quali è il centro di quasi tutte le missioni secondarie, che ci spingeranno intelligentemente verso tutte le direzioni, pur lasciandoci al contempo liberi di approfondire l’esplorazione a seconda del nostro gusto. Il piacere maggiore, nel muovere il nostro personaggio all’interno del cratere, non è tanto sconfiggere i nuovi mostri per ottenere nuovi livelli e nuovi tesori, anche se ovviamente tutto questo non manca: è, piuttosto, la possibilità di scoprire grandi e piccoli segreti dietro la storia non solo del Big MT, ma di tutto il Mojave e in alcuni casi anche di tutto il mondo della devastazione post-nucleare.
Non si pensi, peraltro, che queste informazioni siano lì ‘solo’ per appagare il gusto del giocatore meticoloso, in grado di ricordare nomi e fattispecie di eventi ludici magari risalenti a decine di ore addietro: il gusto derivante dall’esplorazione del cratere, al contrario, è il gusto della fruizione del dettaglio geniale, della citazione dotta, della trovata impensabile eppure pensata. Da questo punto di vista, Old World Blues è certamente un prodotto destinato anzitutto a una nicchia: non la nicchia dei ‘maniaci’ collezionisti di erudizione, bensì quella delle menti aperte e acute, capaci di apprezzare le idee che solleticano la cultura e la fantasia, le idee proprie dell’arte che rispetta il suo pubblico anziché plagiarlo tramite luoghi comuni di facile presa. Per evitare che questo discorso rimanga del tutto astratto, faremo un esempio concreto: dato però che si tratta di qualcosa che viene spiegato solo verso la fine dell’avventura, ne raccomandiamo la lettura solo a chi non teme gli spoiler o a chi ha già terminato l’avventura.
ATTENZIONE, SPOILER!!!
I membri del Think Tank non vengono indicati coi loro veri nomi: di questi, infatti, si è persa la memoria quando si trasformarono in robot, a causa di una sorta di bug nei meccanismi percettivi del loro nuovo involucro, bug che si concretizza in un ‘loop’ che distorce la realtà rendendola una continua ripetizione degli stessi moduli, delle stesse impressioni, degli stessi atteggiamenti. I nuovi nomi scelti dai membri del Think Tank rivelano in pieno, per chi sa e può coglierla, la latenza di questa paranoia:
-Mobius è un riferimento al nastro di Moebius, forse l’esempio più noto di quel che in matematica è una superficie non orientabile;
-Klein è un riferimento alla bottiglia di Klein, altro esempio di superficie non orientabile;
-Borous è un riferimento all’ouroboros, il serpente che si morde la coda, simbolo esoterico adoperato fin dall’antichità per indicare la ciclicità e l’eternità dell’essere;
-Dala ricorda il Mandala, termine sanscrito che nella cultura veda tibetana rimanda al cerchio e all’essere;
-O, che il giocatore può scoprire essere in realtà 0, è esso stesso un simbolo della ciclicità;
-8 è, in matematica, il simbolo dell’infinito.
Nel tentativo di fermare i folli propositi dei suoi compagni, Mobius riesce, pur essendone egli stesso vittima, a sfruttare le debolezze causate dal bug della ciclicità. Riprogrammando le identità dei suoi colleghi, egli riesce a instillare in loro l’illusione, solo debolmente scalfita dalla presenza del nostro eroe e di altri prima di lui, che non esista alcun mondo al di fuori del cratere, e che non si possa far altro che vivere di ricordi della vecchia esistenza terrena. È l’idea a cui rimanda il titolo stesso dell’espansione: in inglese, l’old world blues è, letteralmente, la nostalgia del vecchio mondo, o meglio l’incapacità di guardare in avanti, di assumere una prospettiva, un orientamento.
E non è tutto: le incertezze in cui si dibattono le menti di questi scienziati producono ossessioni spesso solo apparentemente indefinite. Se i membri del Think Tank sono del tutto incapaci di scorgere i confini delle loro paranoie, il nostro alter ego (o meglio, il giocatore che lo controlla) può farlo, visto che egli è ancora padrone del suo corpo e può riconoscere senza ombra di dubbio il feedback lasciato da determinati stimoli. Questo stratagemma, davvero brillante, ha consentito agli autori di trattare tematiche difficili e scabrose, stemperandole attraverso l’indeterminatezza dei termini utilizzati, che però hanno spesso una capacità evocativa in grado di scuotere profondamente il lettore. Ecco che allora la sindrome della dottoressa Dala può essere soprattutto tratteggiata, con poche incertezze, come una profonda nostalgia per le sue passate pratiche masturbatorie.

4. Conclusioni
Old World Blues è un prodotto di qualità davvero elevata: la cura, il dettaglio e la passione instillati in ogni sua componente lo rendono consigliabile senza riserve a coloro che amano non solo New Vegas ma tutta la saga di Fallout e anche tutta la produzione passata degli autori della squadra di Obsidian. Ai numerosi pregi già fin qui elencati, va aggiunta la notevole longevità: per esplorare in lungo e in largo i nuovi territori saranno necessarie tra le dieci e le venti ore, una durata che, in altri generi, corrisponde a quella di un gioco completo, e che fa impallidire la consistenza di pacchetti aggiuntivi spesso venduti allo stesso prezzo e contenenti magari solamente qualche nuova arma o armatura. Gli unici difetti sono quelli naturalmente legati alla riproposizione di meccanismi ormai forse troppo ampiamente sperimentati: chi è stanco della giocabilità di Fallout 3 e di New Vegas, difficilmente troverà nuovi stimoli in queste espansioni. Eppure ci sentiamo di dire che mai come in questo caso val la pena stringere i denti e sopportare il tedio della ripetizione: il tesoro che ci aspetta renderà degno ogni sforzo fatto per raggiungerlo.

Tre pregi di Old World Blues
Tre difetti di Old World Blues
Contenuti delineati in maniera sopraffina
I meccanismi della giocabilità non hanno subito variazioni significative
Pieno di piccole e grandi sorprese destinate ai giocatori più colti e più attenti
In alcuni frangenti, la difficoltà forse non è ben calibrata
Per essere una mini-espansione, è incredibilmente vasta
Alcuni riferimenti ‘interni’ richiedono forse troppa memoria

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