In attesa dell’ormai imminente terzo capitolo, La Maschera Riposta si dà al retrogaming e torna alla scoperta di due tra i massimi capolavori del gioco di ruolo per computer.
[articolo originariamente pubblicato l’8 ottobre 2008]
1. Cenni storici
Nel 1997 Interplay, casa di produzione e sviluppo fondata dal celebre Brian Fargo, pubblicava un gioco che, a detta dello stesso Fargo, si configurava come sorta di prosecuzione ideale di un titolo che aveva riscosso molto successo quasi dieci anni prima, Wasteland. Questo nuovo gioco, intitolato Fallout, prodotto da Tim Cain (futuro fondatore di Troika) e creato dalla divisione di Interplay che l’anno successivo acquisirà il nome di Black Isle Studios (al suo interno v’erano nomi come Feargus Urquhart e soprattutto Chris Avellone), in realtà si rivelò ben presto superiore ai suoi stessi precedenti diretti, sia dal punto di vista del successo commerciale sia per l’approvazione della critica. L’anno successivo uscì un seguito, realizzato dagli stessi autori e con un motore e una giocabilità praticamente identici al primo capitolo: il successo, se possibile, fu ancora maggiore. Ai due Fallout veniva tributato il merito non soltanto di aver rinverdito la tradizione del GDR per computer con soluzioni originali e innovative, ma anche di aver dato vita a una ambientazione post-apocalittica matura e credibile, con venature ironiche e dissacranti chiaramente dirette a un pubblico adulto.
Negli anni successivi Black Isle si dedicò, con enorme successo, al GDR fantasy più tradizionale, adoperando ambientazioni e regolamenti concessi in licenza dal celebre marchio Dungeons&Dragons: arrivarono capolavori come la serie di Icewind Dale e soprattutto Planescape: Torment, senza dimenticare le collaborazioni con Bioware, che sono alla base della celeberrima serie di Baldur’s Gate. Naturalmente il brand di Fallout non venne certo abbandonato: dopo la realizzazione dello spin-off strategico Fallout Tactics, Black Isle cominciò, senza clamore, lo sviluppo di un terzo capitolo, chiamato col nome in codice Van Buren. Nel 2003, però, successe l’irreparabile: Interplay decise di chiudere i suoi studi connessi con lo sviluppo di giochi per PC. I membri di Black Isle si dispersero in altre compagnie (la maggior parte di loro decise semplicemente di dar vita a un’altra casa di sviluppo, Obsidian, responsabile dei seguiti di Star Wars: Knights of the Old Republic e di Neverwinter Nights). Con la chiusura di Black Isle, il progetto Van Buren venne cancellato; poco tempo dopo, però, con una mossa assolutamente inaspettata, il marchio Fallout venne acquisito, per il single player (per il multiplayer è ancora in mano a Interplay), da Bethesda Softworks. I fan vennero sconvolti dalla notizia, dato che Bethesda, responsabile di una delle serie più celebri di GDR per computer (la serie The Elder Scrolls, il cui ultimo capitolo è Oblivion), ha sempre realizzato prodotti dalla filosofia molto diversa, praticamente opposta, rispetto a quella concretizzata in Fallout e in generale nei giochi Black Isle. Da quell’annuncio a oggi sono fioccate polemiche di ogni tipo, ovviamente sempre più frequenti man mano che si avvicina la data della pubblicazione di Fallout 3, previsto per fine ottobre. Sapremo se le profezie si avvereranno solo quando avremo in mano il gioco: per prepararci meglio a quel giudizio, abbiamo pensato di proporre una retro-recensione dedicata ai primi due capitoli. Che le terre selvagge si aprano!
2. Un futuro poco atteso
Alla base del successo della serie Fallout c’è anzitutto, come abbiamo detto, la sua felice ambientazione. Gli autori del gioco hanno elaborato una fanta-storia basata su un ipotetico terzo conflitto mondiale, una guerra nucleare combattuta in un solo giorno, il 23 ottobre 2077. Data la potenza delle armi in mano agli umani, la guerra si risolve nella distruzione quasi totale di tutto il pianeta: negli Stati Uniti solo una percentuale minima della popolazione riesce a salvarsi, rifugiandosi in strutture sotterranee chiamate vault e progettate dal governo per consentire, oltre alla sopravvivenza di una fetta di popolazione in caso di conflitto nucleare, anche arditi esperimenti sociologici basati sulla convivenza forzata e semi-eterna di centinaia di persone. Il protagonista del primo Fallout è per l’appunto un vault-dweller, un abitante di un vault (per la precisione il numero 13, collocato nel sud della California), incaricato di uscire nel mondo esterno per cercare un nuovo strumento per la purificazione dell’acqua (il water chip), dato che quello in dotazione al vault si è guastato e lascerà tutti senz’acqua nel giro di qualche decina di giorni. Procedendo nella sua pericolosa missione (il personaggio giocante è il primo abitante del vault a uscire allo scoperto dopo più di un secolo), l’eroe scoprirà ben altri problemi da affrontare e alla fine si troverà costretto ad andare in esilio nel nord della California, dove fonderà il villaggio di Arroyo.
Da quel villaggio parte Fallout 2: un discendente dell’eroe del primo capitolo, circa ottant’anni dopo gli eventi del medesimo, dovrà lasciare Arroyo per cercare un oggetto chiamato GECK (Garden of Eden Creation Kit), un ritrovato tecnologico capace di trasformare anche il più riarso dei deserti in un terreno rigoglioso. Esattamente come nel primo capitolo, la ricerca di un manufatto è poco più di un pretesto per spingere il giocatore a esplorare, tramite il personaggio giocante, un mondo desolato ma multiforme, costellato da comunità umane più o meno corrotte dalle radiazioni nucleari, tutte impegnate nel difficile tentativo di sopravvivere in un ambiente che non perdona. Il decadimento dei vecchi organismi politici causa il proliferare di gruppi di potere dalla dubbia morale, nei confronti dei quali l’alter ego del giocatore potrà schierarsi, sempre se riuscirà, cosa alquanto improbabile, a non diventare una semplice pedina all’interno di meccanismi più grandi di lui. In generale, nella California post-atomica immaginata da Black Isle si respira un clima vagamente anarchico, venato da sfumature ciniche, che poco concedono all’ottimismo riguardo alla sensibilità del genere umano: con poche eccezioni, i sopravvissuti alla catastrofe sembrano impegnati a ricavare il massimo profitto dal vuoto di potere venutosi a creare, con la conseguenza che l’umanità pare proiettata all’indietro, verso una sorta di nuova età barbarica. Questo contesto, di cui sarebbe fin troppo facile criticare l’univocità, sembra costruito ad arte per consentire agli autori la collocazione al suo interno di situazioni estreme, spesso semplicemente inaccettabili agli occhi di chiunque: una perizia che consente agli sceneggiatori di evitare le semplici ed estremizzate dicotomie morali presenti nei consueti giochi di ruolo per dar vita a episodi disarmanti in senso totalizzante, lasciando spazio a una catarsi che ricorda, a tratti, le battute delle più celebri tragedie greche.
3. Discontinuità storicistiche e potere della satira
Un’altra particolarità dell’ambientazione della serie Fallout è che l’esplosione atomica non sembra avvenuta davvero nel 2077, quanto in un imprecisato momento degli anni ’50 del secolo scorso. Gli autori infatti hanno pescato a piene mani, nel delineare l’aspetto e i tratti dei personaggi come delle locazioni, dalla fantascienza e dai fumetti dell’epoca della Guerra Fredda, quando effettivamente il timore del conflitto nucleare con l’URSS generava, presso numerosi artisti statunitensi, visioni più o meno distorte di un futuro segnato dalla devastazione e dalla sopraffazione del debole sul forte. Le armi hanno un gusto vagamente retrò e sono lontanissime dallo scintillante iper-tecnologismo che permea le installazioni dei consueti giochi o film fantascientifici (si pensi, per restare nella stretta attualità, a Mass Effect); i computer sono enormi e paiono fermi a uno stadio pseudo-DOS; i robot sono pieni di collegamenti tubolari e sembrano più pezzi di modernariato che non arditi raggiungimenti della scienza futura. Ad aumentare l’originalità del tutto contribuiscono anche l’interfaccia e soprattutto la “mascotte” del gioco, il cosiddetto Fallout boy, che compare non solo nei filmati di apertura e in quelli promozionali ma anche nella schermata delle caratteristiche del personaggio.
Oltre ad avere un gusto ancora una volta palesemente retrò, il Fallout boy e l’interfaccia, ma anche i filmati, ricordano dei vecchi giocattoli lasciati a invecchiare in una soffitta: il loro carattere simpatico, dal retrogusto malinconicamente amaro, contrasta visibilmente con le situazioni descritte dal gioco, ma il risultato non dà alcuna impressione di incoerenza. Al contrario, è come se fossimo di fronte alla reinterpretazione della realtà futura in chiave infantile e umoristica, offerta come contraltare alla crudezza delle ‘vere’ scene proposte dal gioco. E’ un modo intelligente per aumentare nel fruitore la sospensione dell’incredulità, offrendo non solo una realtà alternativa plausibile ma anche una sua rilettura alleggerita, tipica dei momenti successivi alle grandi tragedie, quando l’umanità trova la forza di andare avanti grazie alla possibilità di sdrammatizzare e voltare in commedia le atrocità vissute. Per certi versi è anche un modo per insegnare il grande potere della satira e la sua natura onnicomprensiva, che qualcuno oggi, soprattutto in Italia, tenta pervicacemente di negare. Gli autori di Fallout e del suo seguito non si preoccupano di ironizzare anche pesantemente su ogni aspetto dell’esistenza: l’amore, la morte, il sesso. Il gioco è pieno di riferimenti spesso oscuri alla cultura statunitense degli scorsi decenni, talvolta ridicoleggiata e talaltra omaggiata con deferenza: solo al giocatore più attento sarà dato il privilegio di accedere al livello di lettura più profondo. Se c’è una critica che in questo senso si può fare ai grandi autori di Black Isle è la scelta di non estendere la loro satira alla politica presente, che per certi versi si configura come ottima premessa del fanta-futuro da loro immaginato; anche se va detto che alla fine degli anni Novanta gli Stati Uniti non erano ancora precipitati nel baratro bellicistico in cui si trovano al giorno d’oggi.
4. Abilità e crescita del personaggio
Fallout e il suo seguito avrebbero dovuto utilizzare, secondo i piani iniziali di Interplay, il regolamento chiamato GURPS (che sta per Generic Universal RolePlaying System), inventato nel 1986 e all’epoca piuttosto popolare negli Stati Uniti; alcune controversie legali però costrinsero a rinunciare alla licenza. Gli autori ripiegarono su un sistema sviluppato internamente e molto simile al GURPS, chiamato SPECIAL. Il nome deriva dalle iniziali delle sette caratteristiche del personaggio: forza (Strength), percezione (Perception), resistenza (Endurance), carisma (Charisma), intelligenza (Intelligence), agilità (Agility) e fortuna (Luck). Il giocatore è chiamato a personalizzare questi sette valori all’inizio della partita, durante la fase di creazione del personaggio; nel corso del gioco ci sarà qualche occasione, invero piuttosto rara, di aumentare ancora qualche valore. Ciò che all’epoca stupì molto il pubblico di appassionati fu precisamente la reattività del programma alle caratteristiche del personaggio giocante: da questo punto di vista si può dire che Fallout è ancora un esempio da seguire, soprattutto per quanto riguarda la gestione dei dialoghi e in generale di tutto ciò che va oltre il combattimento.
È infatti tratto comune della maggior parte dei GdR per computer, anche recenti, far sentire il peso delle statistiche solo in fase di scontro col nemico: tutto il resto è identico per ogni personaggio e la risposta da dare in un dialogo o la soluzione di un enigma, per esempio, vengono lasciate completamente nelle mani del giocatore. Se questo può essere accettabile in un GdR dalla struttura aperta (dove spetta al fruitore porsi dei limiti), risulta un problema evidente nei giochi story-driven, dove la concessione di qualunque possibilità al giocatore rende concretamente vana la stessa presenza di statistiche slegate dal combattimento: l’interpretazione risulta così dimezzata e la separazione tra giocatore e personaggio è in atto fattualmente solo durante gli scontri col nemico. In Fallout e nel suo seguito, invece, ogni caratteristica merita attenzione: un personaggio fortissimo ma con bassa intelligenza, per esempio, sarà in grado di rispondere al prossimo solo con qualche grugnito, e questo gli impedirà di accedere a molte missioni, rendendo di fatto inutile, in molte occasioni, la sua potenza fisica. Chi invece è dotato di intelligenza o carisma fuori dal comune potrà puntare sulla diplomazia ed evitare la maggior parte degli scontri: in casi particolarmente eccezionali, si potranno evitare perfino *tutti* gli scontri e concludere il gioco senza uccidere nessuna creatura; probabilmente, i due Fallout sono i giochi più recenti a consentire una cosa del genere, e risalgono a dieci anni fa. Oltre alle caratteristiche, il giocatore è chiamato a inizio partita a scegliere anche le tre abilità principali del suo personaggio: le abilità tra cui scegliere sono una ventina, ciascuna con un valore espresso tramite percentuale. Le abilità preferite partiranno a un valore più alto e cresceranno più rapidamente, ma nulla vieta al giocatore di investire i punti guadagnati a ogni crescita di livello anche per abilità non comprese tra le preferite.
Purtroppo l’affinamento realizzato dagli autori per quanto riguarda le caratteristiche, tutte egualmente importanti, non si trova anche nel campo delle abilità: alcune sono chiaramente più utili di altre, soprattutto nell’ambito del combattimento (per fare un esempio, nel gioco si trovano molte più pistole che non armi di grosso calibro). Ogni tre livelli, il giocatore può scegliere anche tratti aggiuntivi per il suo personaggio, chiamati perk; la cosa curiosa è che alcuni di essi non hanno alcun effetto pratico, o ce l’hanno ma molto lieve: servono ‘solo’ a caratterizzare meglio l’alter ego del fruitore, migliorando l’esperienza di quest’ultimo dal punto di vista interpretativo. Segno che alla base di questi due giochi c’è soprattutto un grande amore per il nostro hobby preferito.
5. L’interfaccia
Fallout e il suo seguito sono tanto raffinati dal punto di vista della filosofia che li plasma quanto segnati, nel loro aspetto concreto, dall’età e dalla complessità forse eccessiva con cui gli autori hanno voluto delinearne i confini. Durante le fasi pacifiche, il gioco è in tempo reale: il giocatore muove il suo personaggio su mappe bidimensionali semplicemente cliccando sulla sua destinazione (talvolta raggiunta attraverso giri strani, a causa della presenza di una “scacchiera” di esagoni nascosta). Il puntatore di movimento può essere cambiato, tramite pressione del tasto destro del mouse, nel puntatore di analisi e di interazione: se puntiamo quest’ultimo su un oggetto con cui non si può interagire, comparirà una semplice descrizione testuale; se invece l’oggetto è interattivo (porta, forziere, personaggio non giocante), allora partirà l’azione predefinita. Dover cambiare continuamente la tipologia di puntatore è decisamente seccante, ma non si tratta di una fattispecie così isolata nei giochi degli anni Novanta; purtroppo questa complicazione si aggiunge ad altre facilmente evitabili. Per esempio, utilizzare una abilità che non sia passiva richiede l’accesso allo “skilldex”, la scelta dell’abilità medesima e infine un clic sulla sua destinazione. L’inventario, peraltro migliorato leggermente al passaggio dal primo al secondo capitolo, è organizzato tramite una colonna con barra di scorrimento che non si può certo definire lo stato dell’arte quanto a praticità, e qualunque azione si voglia eseguire su un oggetto richiederà una serie di clic più lunga del dovuto. Due oggetti (e solo due) possono essere sistemati in appositi spazi, dai quali poi possono essere adoperati direttamente in-game; l’utilizzo che un certo oggetto può avere non è sempre chiaro, anche a causa di icone che, pur espressive, risultano talvolta non tanto funzionali.
Oltre all’inventario, non possono mancare naturalmente due apposite finestre dedicate alla mappa del luogo in cui si trova il personaggio, purtroppo composta da blocchetti verdi non proprio intuitivi, e alle caratteristiche del personaggio medesimo, quest’ultima molto ben fatta e capace di riassumere agevolmente tutto quello che serve sapere sul proprio alter ego. Un elemento portante dell’interfaccia è poi il cosiddetto PIP-boy, una sorta di piccolo computer portatile che ha il compito di fungere da diario e da registro degli eventi significativi (nella fattispecie, mappe e filmati); il diario purtroppo è realizzato in modo molto approssimativo, con ciascuna missione descritta da una semplice frase e priva di qualunque riferimento concreto, tanto che sarà spesso necessario ricorrere alla memoria (o a un diario cartaceo) per rinvenire informazioni essenziali. Un aspetto da sottolineare fin da subito riguardo all’esplorazione del mondo è che la raffigurazione dello stesso in finto 3d non è particolarmente riuscita. Gli elementi che svettano dal terreno, quali rocce o pareti di edifici, sono disegnati nella loro interezza e scompaiono temporaneamente solo all’interno di un minuscolo cerchio che si muove assieme al personaggio giocante. Questo rende spesso decisamente ardua, se non impossibile, l’individuazione di punti importanti come casse, barili o perfino creature.
6. Il combattimento
Quando il nostro alter ego incontra una creatura ostile, l’interfaccia di gioco cambia considerevolmente. In Fallout e nel suo seguito, il combattimento è gestito a turni: ciascun contendente ha a disposizione un certo numero di “punti azione” e li può spendere per sferrare un attacco, per spostarsi o per adoperare un oggetto. L’esito di un colpo, sia esso in corpo a corpo o a distanza, è condizionato grandemente non solo dalle abilità di chi lo sferra ma anche dalle condizioni ambientali, in particolare dalla luce: prima di azionarlo, il gioco ci indicherà la percentuale di successo e a quel punto potremo decidere, eventualmente, per una mossa alternativa. I danni sono misurati tramite il consueto sistema dei punti ferita, ma a rendere più approfondita la questione c’è la possibilità, davvero ben fatta, di effettuare uno speciale colpo “mirato”, con conseguenze ulteriori rispetto alla semplice diminuzione della salute dell’avversario. Scegliendo questa opzione, il gioco ci mostrerà una raffigurazione stilizzata del nemico, dove saranno indicate le zone del suo corpo selezionabili e la relativa percentuale di successo.
L’effetto dei colpi mirati è coerente con la zona colpita: un attacco alle gambe diminuirà la velocità di movimento del nemico, uno alle braccia la sua abilità nel combattimento, uno alla testa lo può uccidere istantaneamente; naturalmente, i colpi dagli effetti più eclatanti saranno più difficili da mettere a segno. Il numero di punti azione necessario per compiere un attacco varia a seconda dell’arma: normalmente le pistole permettono più colpi, ad esempio, di un grande cannone al plasma. Un aspetto da tenere sempre sotto controllo se si usano le armi a distanza sono le munizioni: non basta averne qualcuna nell’inventario, devono anche avere un calibro adatto all’arma; è poi il caso di assicurarsi che quest’ultima sia carica, dato che caricarla durante il combattimento consuma alcuni preziosi punti azione. E’ implementato anche il combattimento a mani nude, purtroppo in maniera abbastanza semplicistica: nel primo Fallout c’è a disposizione solo un attacco chiamato “pugno”, nel secondo capitolo è stato aggiunto anche il “calcio forte”.
7. Il mondo e i suoi abitanti
Come abbiamo già detto, il mondo di Fallout è organizzato in mappe bidimensionali. Ciascuna mappa ha, ai lati, uno o più punti di passaggio, evidenziati da una colorazione particolare. Alcune zone di passaggio conducono direttamente ad altre mappe, poste idealmente vicine alle prime; altre invece conducono a una mappa generale del mondo. Questa evidenzia, tramite grandi punti verdi, le località più importanti di cui il nostro personaggio è a conoscenza: cliccando sopra un punto, inizierà il viaggio rapido verso la relativa località. Alcune volte, tale viaggio sarà interrotto da incontri casuali con nemici coerenti con la zona in cui ci si sta muovendo, in modo non troppo diverso da quanto verrà realizzato successivamente in Baldur’s Gate. Le missioni, particolarmente varie e come già detto riguardanti spesso temi eticamente sensibili, vengono ovviamente assegnate quasi sempre dai personaggi non giocanti; questi ultimi si dividono, com’è consuetudine nei giochi story-driven come Fallout e il suo seguito, in personaggi generici (cittadino, guardia) e personaggi dotati di nome e cognome. Il dialogo con i primi si limita solitamente a una frase che compare in sovraimpressione nella finestra principale; i secondi, invece, fanno comparire una nuova interfaccia, caratterizzata dai consueti elementi decorativi ridondanti che accompagnano gran parte del gioco.
I dialoghi principali sono organizzati a scelta multipla, e come dicevo sopra sono fortemente influenzati dalle caratteristiche del personaggio. Ciascuna scelta può aprire ventagli ulteriori o anche inibire qualunque comunicazione successiva; opinabile è la scelta di imporre la chiusura del dialogo dopo ogni “ramo” di conversazione, imponendo al giocatore di riaprire più volte il dialogo per poter esplorare tutte le opzioni. Una caratteristica molto interessante è che le conversazioni con i personaggi principali sono interamente doppiate e implementano addirittura un rudimentale sistema di animazione facciale, tramite il quale possiamo vedere di getto se il nostro interlocutore è ben disposto o meno nei confronti del nostro alter ego. Come abbiamo già fatto notare, uno dei grandi meriti di Fallout è di essere stato molto avveniristico in certe scelte di design. Alcuni NPC in certi casi possono essere reclutati e seguire il nostro personaggio, anche se affermare che i due Fallout sono giochi basati su un party di avventurieri pare eccessivo: i comprimari tendono infatti ad agire autonomamente e anche se nel secondo capitolo è stata implementata la possibilità di dar loro qualche ordine, il gioco risulta comunque concentrato sul personaggio giocante.
8. Il sistema grafico
È ovvio affermare che i due Fallout, essendo giochi di molti anni fa, non brillano certo per la loro presentazione grafica, che peraltro a suo tempo non era affatto disprezzabile. Più che le limitazioni insite nella tecnologia dell’epoca, comunque, ci preme qui sottolineare la singolarità di certe scelte stilistiche, non sempre totalmente staccate dalla giocabilità pratica. Abbiamo già accennato, per esempio, all’invasività dei disegni tridimensionali, che in molte occasioni impediscono di avere una idea chiara di ciò che si trova in determinate locazioni. Si aggiunga a questo la tendenza a organizzare gli spazi in modo fin troppo ‘compresso’, in particolare nelle zone urbane, e si comprenderà come il più delle volte il problema maggiore nel gioco sia non tanto aver ragione di un nemico o risolvere un’enigmatica missione, bensì spostarsi semplicemente dal punto A al punto B senza perdere nel frattempo un qualche oggetto importante posto tra i due punti (non mancano i casi in cui è necessario ricaricare, causa personaggio intrappolato dentro una minuscola stanzetta). Un altro tratto stilistico opinabile è la scelta di rappresentare qualunque edificio come una sorta di piattaforma estesa solo in orizzontale e organizzata architettonicamente secondo elementari angoli retti (difetto ereditato anche da Arcanum): in Fallout e nel suo seguito, le zone abitate hanno un’aria terribilmente monotona e assurdamente artefatta, sembrando disegnate da un bambino di cinque anni incapace di usare il compasso e timoroso di raffigurare qualunque tratto se non tramite un righello. Un grande plauso meritano invece i filmati, non tanto per le prodezze in computer grafica quanto per la regia, le musiche, il doppiaggio. Gran parte del fascino del brand Fallout deriva proprio dalla cura per l’aspetto sonoro e cinematografico dei due titoli, capace di superare spesso in modo imbarazzante anche le maggiori produzioni degli ultimi anni.
9. Conclusioni
Pur con tutti i loro limiti (presenti, per quanto lo sguardo appannato di nostalgia di molti appassionati non riesca a coglierli), Fallout e il suo seguito meritano il massimo dei voti sia come prodotti “in sé” sia retrospettivamente, come esponenti storici del gioco di ruolo per computer. Il consiglio di provarli nonostante la loro età si basa soprattutto su due assunti. Anzitutto, nell’implementazione dell’interpretazione ‘dialogica’, i due titoli giochi prodotti da Tim Cain sono ancora per molti versi insuperati e quindi possono fungere da ottima pietra di paragone anche per i titoli odierni. In questo caso l’invecchiamento passa in secondo piano a causa delle limitate esplorazioni che, della strada intrapresa da Interplay a suo tempo, sono state effettuate nei successivi dieci anni, spesso a vantaggio di altri pur importanti aspetti, quali la grafica fotorealistica o l’ampliamento dei mondi e delle ambientazioni. In secondo luogo, una esperienza di gioco con Fallout può ricordare in modo chiaro e diretto l’importanza del dettaglio, anche nelle produzioni di largo respiro. I due titoli Interplay sono letteralmente ricolmi di citazioni, piccole sorprese (i cosiddetti Easter Eggs), particolari destinati a quella fetta di giocatori che considera il proprio hobby non certo un modo per ammazzare il tempo libero ma piuttosto per arricchirlo con l’indagine approfondita e consapevole di un grande prodotto dell’ingegno. Per quanto il terzo capitolo possa rivelarsi un disastro, nessuno potrà sottrarci i primi due.
Tre pregi di Fallout e Fallout 2 | Tre difetti di Fallout e Fallout 2 |
Maturi e profondi | Tecnicamente, sono giochi di dieci anni fa |
Ambientazione curata e originale | Interfaccia molto migliorabile |
Pieni di piccoli regali per i giocatori più attenti | In alcune fasi sono contorti e poco chiari |
Non scorderò mai quella volta che, leggendo l’ultimo numero di Pc Gamer, rivista inglese che per anni è stata distribuita anche in Italia, voltai pagina e trovai la guida strategica di Fallout, scritta dagli stessi sviluppatori (tra cui il mitico Avellone), seguita poco più avanti dalla recensione del gioco. Ebbi subito la netta sensazione che Fallout avrebbe rivoluzionato per sempre la mia idea di rpg. Avevo ragione.
In questi ultimi 20 e rotti anni ho finito Fallout due volte e il suo seguito tre volte (anche con la patch Restoration che recupera contenuti e quests non inserite nell’originale).
Fallout non è il gioco perfetto. Il suo sistema di combattimento a turni lascia spazio a troppe possibilità di barare per il giocatore. I bug abbondano (anche se patch successive hanno migliorato la situazione). Il sistema di controllo dei compagni è orribilmente lacunoso nel primo titolo e rivedibile anche nel seguito. Il bilanciamento è discutibile, con le armi da fuoco palesemente migliori di quelle corpo a corpo. Molte perks sono inutili o superflue.
Tuttavia il fascino post-apocalittico, le indimenticabili intro in bianco e nero con musiche anni ’50 e Ron Perlman che ci avvisa cupamente che la guerra non cambia mai, il carisma di alcuni personaggi (dal selvaggio Sulik col suo osso-spirito infilato nel naso, al mitico bosso finale Frank Horrigan), alcune trovate come la possibilità di acquistare un macchina o scuoiare un gecko per venderne la pelle, la complessità dei dialoghi a scelta multipla, i temi adulti affrontati (guerra, schiavismo, sesso, razzismo nei confronti di mutanti e ghoul, fanatismo militare), il modo indistinto in cui viene tratteggiata la linea tra bene e male, la presenza di alcune perk davvero simpatiche (maestro del kamasutra??)… tutto ciò eclissa facilmente qualsiasi difetto, e pone a mio avviso questi due titoli nel Valhalla degli rpg maturi e complessi (assieme a Torment, Deus Ex, Vampire Bloodlines, System Shock2 e pochissimi altri) che ogni appassionato dovrebbe avere nella propria ludoteca.
Grazie per la toccante testimonianza Warren!
Io ho giocato entrambi i primi due Fallout, ma solo una volta. Purtroppo l’interfaccia e la giocabilità generale secondo me sono invecchiate malissimo. Mi spiace che non siano stati realizzati con un motore un po’ più maneggevole e user-friendly, tipo l’Infinity di Baldur’s Gate.
Già, ci vorrebbe una bella Enhanced Edition anche per questi giochi, che soprattutto ne migliori l’interfaccia.
Io ho provato qualche ora Fallout 2, ma vuoi appunto per l’interfaccia legnosa (già solo il fatto di dover cambiare il cursore del mouse per interagire con l’ambiente è una seccatura), vuoi per il fatto che capire con cosa interagire non è così scontato ( forse anche per via della grafica), vuoi per il diario stringatissimo, vuoi perché l’ambientazione in sé già non mi fa impazzire (a differenza di Arcanum, che invece ho finito più volte), l’ho abbandonato.
Prima o poi però ci dovrò riprovare sul serio, sono giochi troppo importanti perché un appassionato del genere possa ignorarli.
Sul discorso interfaccia avete pienamente ragione, nel 2024 è una cosa semplicemente ingestibile. Non è possibile fare 8 click per provare a scassinare una porta, poi magari si fallisce (il famigerato lancio di dadi virtuale, perchè di quello si tratta) e dover fare altri 8 click per riprovare la stessa azione, ma non scherziamo nemmeno.
Sul discorso dei remake…boh. Un vero remake sarebbe un lavoraccio improbo perchè bisognerebbe riscrivere il codice da cima a fondo, non è solo questione di interfaccia. Lo ritengo molto improbabile, per due motivi: prima di tutto non credo che a Bethesda interessi più di tanto dato che ha numerosi progetti già aperti, e secondariamente perchè il rischio che venga fuori una ciofeca è molto elevato. Basta pensare a quello che è successo con Wasteland 2, che dovrebbe far scattare un campanello d’allarme a tutti. Insomma, sono stati grandi giochi, ma lasciamo che riposino in pace e guardiamo avanti.
Riguardo a Wasteland 2, effettivamente la prima versione uscita nel 2014 era rozza e piena di bugs, e la cosa suscitò molte reazioni negative, giustificate soprattutto dal fatto che Fargo e soci disponevano di un budget enorme grazie a un crownfunding da record.
Comunque con il successivo rilascio della Director’s Cut, le cose sono migliorate molto, con l’aggiunta di perks e molto parlato, oltre alla correzione di numerosi problemi e un leggero miglioramento estetico.
Personalmente, preferisco W2 al seguito uscito nel 2020, che pure è tecnicamente superiore, forse per il fatto che rispetto a quest’ultimo, è molto più connesso all’originale, e immortale, Wasteland 1, peraltro precursore dello stesso Fallout.
Concludo consigliando il titolo in questione nella versione DC, possibilmente moddato, a chiunque apprezzi il genere post-atomico.
Io intendevo semplicemente che servirebbe una Enhanced Edition tipo quelle di Beamdog. Basterebbe rendere l’interfaccia user friendly, e migliorare il diario, e questi due giochi diventerebbero quantomeno più accessibili a chi ha giocato i Gdr dell’epoca (inlcuso BG1 nella sua versione originale). Gia così sarebbero molto più gestibili almeno da un giocatore un minimo attento, avvezzo a roba come Arcanum o i giochi Infinity, ma non proprio “hardcore”.
Ciao Zapan, non ho mai giocato a Fallout 2, anche se presumo che non sia troppo diverso dall’1 per ciò che concerne interfaccia, gameplay etc. Fermo restando che si tratta di giochi di 25 anni fa, e quindi magari l’interfaccia non era poi disdicevole rispetto ad altri RPG del tempo, mi ha colpito la tua ultima frase. Sembra quasi che la passione per i videogiochi debba essere un lavoro… Fallout 2 semplicemente non ti è piaciuto, non vedo perché dovresti accanirti. Non bastano le qualità oggettive di un gioco a farcelo piacere: ci sono altri fattori che percepiamo in modo soggettivo, secondo i nostri gusti. È un po’ come per la musica: se il timbro di voce di un cantante non ti piace, non lo ascolti, anche se è bravo. E nessuno può dirti che non capisci di musica o che non sei abbastanza appassionato. A me è successo un po’ lo stesso con Oblivion: pur riconoscendo le tante qualità del gioco, non mi piaceva (a differenza di Skyrim), e l’ho lasciato perdere dopo poche ore. Dopotutto, parliamo di videoGIOCHI: se a giocare non si è contenti, non ci si diverte, non si trae godimento, meglio lasciar perdere senza farsene un cruccio.
In realtà penso che possa piacermi, infatti ha una bella atmosfera, questo va detto. Anzi, se questi giochi avessero una Enhanced Edition come i Baldur’s Gate sono sicuro che riuscirei ad apprezzarli, come del resto ho apprezzato molto New Vegas. Mi chiedo perché non ci abbiano ancora provato, magari è troppo difficile riscrivere le interfacce? Non so.
Magari proverò con il primo Fallout, visto che è un titolo relativamente breve, ma non prima di aver finito Siege of Dragonspear e BG2.
Anche io mi chiedo come mai non vengano prodotte nuove edizioni dei primi due Fallout: secondo me farebbero soldi a palate. Ci deve essere qualche problema, o tecnico o relativo alle licenze.
A dire il vero è in sviluppo una conversione in prima persona di Fallout 2, anche se i tempi potrebbero essere biblici e il risultato finale incerto.
PS x Mosè : finalmente ho recuperato TUTTI i tuoi storici saggi sull’indimenticabile Caesar 3, e anche se alcune informazioni sono state rese oboslete dal mod Augustus, restano comunque dei documenti avvincenti e piacevoli da leggere.
In merito a ciò, ti consiglio caldamente, se non l’hai già fatto, di provare Augustus ( che peraltro consente la traduzione in italiano, tramite una guida disponibile su Steam). Sono certo che un vecchio esperto come te non potrà che godere delle numerose migliorie e aggiunte che la mod offre (blocchi stradali, zoom, interfaccia migliorata, nuovi edifici, nuove meccaniche) al punto da svecchiare completamente il gioco e renderlo ancora appettibile a un quarto di secolo di distanza!