Il discusso lavoro di Peter Molyneux lascia parecchio a desiderare sotto il profilo interpretativo.
[articolo originariamente pubblicato il 18 novembre 2005]
1. Aspettative
Nell’industria videoludica, raramente il nome del singolo autore è conosciuto dagli appassionati e dagli acquirenti. Un videogioco è un prodotto di squadra esattamente come lo sono un film o un cd musicale; però, mentre in questi ultimi due casi il nome del principale responsabile è sempre noto e adeguatamente osannato (o criticato), nel caso del videogioco è già tanto se il grande pubblico conosce il nome della squadra, cioè del gruppo di sviluppatori che l’ha realizzato. Certo, ci sono le eccezioni; e ora ci apprestiamo appunto a parlare di una di queste eccezioni: si tratta del signor Peter Molyneux. Dietro questo nome c’è un vero guru della storia del videogame, tanto che in questo caso si verifica la situazione opposta rispetto a quella descritta sopra: è più facile che qualcuno ricordi il nome dell’autore piuttosto di quello del gruppo di cui egli fa parte, che peraltro è cambiato più volte (attualmente è Lionhead).
Quali sono i meriti di Molyneux? Diciamo che il suo merito maggiore è senza dubbio quello di tentare spesso di uscire dagli schemi preconfezionati dei vari generi di volta in volta scelti come campo d’azione, proponendo opere che pongono l’accento proprio sulla qualità autorale, sul marchio distintivo del genio individuale, piuttosto che sulla piana e semplice concretizzazione di qualche tipo di giocabilità consolidata. Le creazioni di Molyneux sono spesso geniali, e questa è in un certo senso la loro croce e delizia: nel senso che talvolta al genio si accompagna la pretenziosità o, peggio, la tendenza a ignorare o a curare poco aspetti che in un prodotto interattivo sono fondamentali (la giocabilità, la programmazione, la longevità). Il prodotto di cui ci apprestiamo a parlare purtroppo mostra con assai maggiore evidenza proprio i lati deboli del genio, piuttosto che la sua (presunta) genialità. Si tratta di un’opera le cui origini affondano nel passato: dopo anni di sviluppo (inizialmente il gioco si chiamava Project Ego), è arrivata sulla console di Microsoft Xbox più di un anno fa con il titolo di Fable. Dopo il grande successo ottenuto, gli sviluppatori hanno pensato bene di proporne una versione anche per PC, ampliandola e rifinendola: il titolo è Fable: The Lost Chapters, il successo di vendite è ancora una volta elevato e i commenti generosi della critica si sprecano.
Un prodotto di successo, dunque, tanto che pare sia già in cantiere un secondo capitolo. Probabilmente non poteva succedere altrimenti, visto che prima ancora della sua uscita per Xbox Fable vantava un hype senza precedenti; merito delle aspettative create da Molyneux, che a sua detta ci stava per mettere davanti un gioco di ruolo rivoluzionario, che avrebbe cambiato completamente il genere. Si immagini un mondo vasto e vivo, popolato da decine di NPC ciascuno con una propria personalità, in cui far muovere il proprio personaggio e farlo agire liberamente, pronti a subire le conseguenze tangibili delle sue azioni e a fargli condurre una vera e propria vita virtuale, con tanto di possibilità di acquistare case, sposarsi… insomma, sembrava che in ballo ci fosse un Morrowind dieci volte più interattivo: ben si capisce l’attesa degli appassionati. L’uscita della versione per Xbox ha fatto sparire rapidamente gran parte delle speranze: come già era capitato in passato, quelle di Molyneux si rivelarono arditezze prive di qualunque fondamento. Eppure il successo di critica e pubblico non mancò di certo. Ora si sta ripetendo la stessa storia con la versione per computer: gioco osannato, vendite alle stelle, e tutto questo per un prodotto che, come gioco di ruolo, vale meno di zero. Dov’è l’inghippo? Che sia solo colpa/merito della pubblicità?
Il gioco inizia con il personaggio giocante poco più che bambino, alle prese con il compleanno della sorellina e con altre problematiche non propriamente epiche. Dopo poco tempo, il villaggio della sua famiglia viene attaccato da una banda di malviventi che bruciano tutto e uccidono sia suo padre sia sua madre; uno strano figuro di nome Dedalo (Maze nell’originale inglese) raccoglie allora sotto la sua protezione il ragazzino, conducendolo alla gilda degli eroi e avviandolo verso la carriera, appunto, dell’eroe. Tutto il resto del gioco ruota attorno alla caccia a questi banditi che imperversano nel territorio di Ascalon, il mondo di gioco in cui è ambientato Fable. Dalla gilda, che funge da base per tutta l’avventura, il nostro personaggio può ottenere nuove missioni sia principali sia secondarie (alcune di queste ultime possono essere ‘raccolte’ anche in giro per le altre mappe); la loro risoluzione avvicinerà progressivamente e con notevole rapidità (la quest principale dura una quindicina di ore) alla fine, e porterà all’esplorazione di territori di varia foggia e di vario clima. Il sapore che lega le varie ambientazioni è tendente al fiabesco, come peraltro suggerisce il titolo stesso del gioco: se i paesaggi possono ambire a un certo realismo, non così i personaggi, resi con uno stile umoristico-deformed non dissimile da quello che si incontra in certi giochi Blizzard e anche nelle miniature di certi giochi da tavolo. L’impressione iniziale è che tutto sia estremamente semplice, infantile e perfino superficiale: purtroppo, questo è uno di quei casi in cui l’impressione iniziale si rivela, nel lungo periodo, perfettamente sensata.
2. Meccaniche di gioco
Che Fable sia una trasposizione per PC di un gioco nato per console si vede da lontano un chilometro: il sistema di controllo è quanto di più contorto e poco intuitivo ci sia capitato di vedere da anni. La visuale è incollata alle spalle del personaggio, in maniera non dissimile da quello che succede in Gothic; il movimento si attiva con i tasti tradizionali (WASD), mentre il combattimento viene gestito tramite clic del mouse, dopo aver impugnato l’arma equipaggiata attraverso la pressione di un tasto. L’interazione con NPC e oggetti avviene attraverso il tasto TAB. Fin qui niente di strano; i problemi arrivano quando è ora di aprire l’inventario o le schermate relative alle caratteristiche del personaggio, alle opzioni e a tutto il resto. Tutto comincia con la pressione del tasto ESC: il gioco si blocca e sulla sinistra compare un menu con diverse voci; navigando all’interno di queste voci con numerosi clic successivi, si trova quello di cui si ha bisogno, ma l’investimento di tempo è davvero notevole rispetto agli standard a cui il giocatore per PC è abituato. Per esempio, l’inventario si apre cliccando sulla relativa voce, ma dopo averlo aperto non vedremo la classica finestra con gli oggetti posseduti, ma una lista di categorie all’interno delle quali sarà necessario iniziare la nostra ricerca; una volta trovato l’oggetto, non si pensi che sia sufficiente cliccarci sopra per indossarlo: al contrario, sarà necessario prima cliccarci sopra e poi cliccare sulla scritta “indossa” o “usa”, che comparirà al posto del suo nome. Una volta terminata la procedura, sarà necessario ripeterla a ritroso per ritornare al punto di partenza.
Nel corso della normale esplorazione, l’interfaccia è abbastanza discreta, anche se pullula di parti che cambino e lampeggiano nel corso del gioco, e capire per bene la funzione di ogni simbolo che compare e scompare è abbastanza arduo. Ci sono i soliti indicatori di salute e di mana, c’è la solita barra rapida e la solita minimappa. L’interazione con i NPC è ridotta all’osso: con quelli generici possiamo limitarci a sentire il loro saluto (che varia a seconda dell’allineamento e dell’aspetto del nostro personaggio), con quelli più importanti possiamo ascoltare quello che hanno da dirci ed eventualmente accettare o declinare quello che ci propongono; con i mercanti possiamo accedere al loro inventario, con una procedura lenta e macchinosa più ancora di quella descritta sopra a proposito dell’inventario del personaggio. Il combattimento è puramente action e ricorda in maniera spudorata i giochi di piattaforme e i cosiddetti “picchiaduro”, ancora una volta tipicamente legati al mondo delle console: fra parate, affondi, capriole e acrobazie varie, c’è di che far perdere la testa a chi passa molto tempo in sala giochi, e di che far perdere la pazienza agli amanti del GDR vero. Le parti più spiccatamente interpretative (ma il termine pare anche in questo caso quantomeno esagerato) sono confinate in sotto-giochi che il giocatore può decidere se intraprendere o meno: è il caso per esempio della possibilità di corteggiare una ragazza, sposarla, comprare una casa, andare dal barbiere e cambiare pettinatura e altre amenità. Tutto, comunque, appare avulso dal contesto, oltre che superficiale e semplicistico; comunque, non tanto quanto il sistema dell’allineamento e della morale, il punto dove Fable tocca davvero il fondo.
3. Morale matematica
Lo sviluppatore ha insistito soprattutto su un punto durante il grande battage pubblicitario che ha preceduto la pubblicazione del gioco: la possibilità di far comportare il proprio personaggio in qualunque modo, assaporando in seguito le conseguenze delle sue azioni. Il concetto non è una novità e anzi è alla base di ogni buon gioco di ruolo per computer prodotto in questi ultimi anni, ma in Fable tutto avrebbe dovuto essere più approfondito e godibile. Che questo sia un punto focale del prodotto lo si capisce fin dai primi minuti di gioco, quando per ogni missione per quanto piccola sono previste le due modalità di esecuzione canoniche: buona e malvagia. Che un ragazzino come il personaggio che inizia il gioco abbia una visione del mondo tanto limitata e riduttiva appare comprensibile: meno comprensibile è che questa artefatta e superficialissima suddivisione in buono e cattivo sia la colonna portante dell’intero gioco, con vette di semplificazione che sfociano in momenti di comicità pura.
Che dire, ad esempio, del fatto che dei semplici passanti, gente comune che non ha mai visto prima il nostro personaggio, lo apostrofa con saluti tipo “Eh, è proprio una brava persona!” et similia? O che dire del fatto che, a seconda di ciò che fa, il nostro personaggio si trasforma in un fenomeno da baraccone simile ora a un angioletto ora a un diavoletto? Fable è la realizzazione dell’incubo peggiore dell’appassionato di giochi di ruolo: la trasformazione della libertà di agire secondo qualunque direttiva morale da esercizio di indagine e di consapevolezza a giochetto per bambini deficienti. Ogni due passi ci viene proposto di essere buoni o cattivi, e possiamo scegliere in maniera del tutto casuale in ogni occasione, senza che la storia subisca il minimo cambiamento: semplicemente, verranno aggiunti o tolti punti al nostro allineamento e cambierà di conseguenza l’aspetto del personaggio e il saluto che riceverà dai passanti. La condotta morale ridotta a esercizio contabile. Per non parlare della banalità delle scelte che ci vengono messe davanti: mai ci capiterà di avere dei dubbi su cosa è bene e cosa è male, il bandito è sempre cattivo e la guardia è sempre buona, e se proprio fossimo indecisi ci sarà la faccia del propositore a fugare ogni incertezza. In questo senso, Fable è anche un ottimo esempio della superficialità e del razzismo strisciante che albergano, questa volta per davvero, nella nostra società.
Già prima parlando delle meccaniche di gioco abbiamo fatto notare come l’interfaccia di Fable ricordi più quella di un gioco per console che quella di un gioco per PC. Il problema peraltro non riguarda solo la navigazione attraverso le varie schermate ma anche un altro aspetto, forse il più bersagliato dalle critiche dei giocatori: il sistema di salvataggio. In Fable, il salvataggio non è libero ma vincolato all’attivazione delle quest. Proviamo a spiegare nel dettaglio. Quando non ci sono sottoquest attive (cioè quando non siamo nella mappa dove una certa quest si risolve), possiamo effettuare un salvataggio normale, che mette da parte sia lo stato del mondo sia lo stato del personaggio. Quando invece siamo nel bel mezzo della risoluzione di una quest, l’unico salvataggio disponibile è il cosiddetto “salvataggio eroe”, che salva lo stato del personaggio ma non quello del mondo; in pratica ricaricando si dovrà ricominciare la missione da capo. La faccenda non sarebbe tanto grave se le missioni fossero brevi e il metodo di salvataggio poco invasivo: purtroppo, Lionhead fa fiasco su entrambi i fronti. La missione-tipo è certamente breve, ma i programmatori hanno avuto la brillante idea di considerare tutto il tutorial come una unica lunga missione: ebbene, per giocare il tutorial come si deve serve almeno un paio d’ore. Non c’è ovviamente bisogno di descrivere lo stato d’animo del giocatore che, appena installato un nuovo gioco, scopre con orrore che per le prime ore non è possibile salvare i progressi fatti.
Quanto all’invasività del sistema di salvataggio, torniamo al discorso fatto sopra riguardo all’interfaccia. Ecco il percorso da fare ogni volta: premere ESC, selezionare “opzioni”, selezionare “salvataggio eroe/mondo”, selezionare la posizione in cui effettuare il salvataggio nella lista disponibile, confermare se stiamo sovrascrivendo un salvataggio precedente, cliccare “ok” su una finestra che ci informa che il salvataggio è andato a buon fine (ci mancherebbe!) Anche in questo caso, non serve descrivere con che entusiasmo il giocatore si imbarcherà in una simile impresa ogni cinque minuti, né che effetto abbiano queste scelte di design sulla suspension of disbelief. E ci sarebbero da aggiungere altre ‘chicche’ straordinarie nel farci dubitare se il gioco che abbiamo davanti sia un RPG del 2005 o Pacman: per esempio il fatto che dai nemici uccisi escono palline verdi fosforescenti che bisogna ‘raccogliere’ per ottenere l’esperienza, che gli oggetti si tirano su passandosi sopra col personaggio, che in giro per il mondo si trovano forzieri per aprire i quali bisogna raccogliere un certo numero di chiavi che fluttuano a mezz’aria nei luoghi più impensati… stupisce che, dopo l’installazione di Fable, non compaia davanti al nostro computer una fessura in cui inserire l’apposita monetina per giocare altri cinque minuti.
4. C’è del buono
Può un gioco descritto in termini tanto negativi avere qualche lato piacevole? Nel caso di Fable sicuramente sì. Intanto il sistema grafico e sonoro è decisamente soddisfacente, anche se la resa grafica dei personaggi risente di scelte stilistiche che in più di una occasione paiono molto discutibili (sembra che i programmatori abbiano fatto molti sforzi per far sembrare l’atmosfera infantile e del tutto priva di qualsivoglia tensione drammatica). I paesaggi, in compenso, sono molto evocativi e la scelta dei colori in particolare è elegante e bilanciata; alcuni scorci ricordano certe atmosfere in bilico fra il realismo inglese dell’Ottocento e il ‘sublime’ di romantica memoria. L’accompagnamento musicale è adeguato, con punte di autentico virtuosismo, anche se talvolta insiste troppo a lungo sui medesimi temi. A conti fatti, l’aspetto più positivo del gioco è però un altro, un qualcosa che confina pericolosamente con alcuni degli aspetti negativi sopra evidenziati. La possibilità di personalizzare a livello estremo il nostro personaggio, ad esempio, dona al gioco sfaccettature interpretative del tutto inattese.
Il problema è che queste sfaccettature si trovano collocate all’interno di un mondo tanto semplicistico e limitato da risultare quasi prive di significato, del tutto fini a se stesse. Però è comunque interessante il concetto di fondo suggerito: non è detto che le possibilità di personalizzazione debbano sempre avere una qualche conseguenza in termini di giocabilità. Se pensiamo, si tratta della filosofia che sta alla base di molti dei plugin realizzati per Morrowind: aggiungere al gioco di Bethesda la possibilità di comprare nuovi vestiti o di cambiare la faccia del nostro personaggio non ha la minima influenza sul gioco vero e proprio. A prima vista potrebbero sembrare sfizi da giocatore capriccioso, che invece di badare al sodo si perde in quisquilie. Niente di più falso: l’universo del giocar di ruolo è ben di più che scegliere la spada più potente per un certo mostro. È, al contrario, ricavare soddisfazione dall’interpretazione stessa. Il problema di Fable, quindi, non è che molte delle sue funzioni “non servono a niente”, come si lamentano alcuni giocatori: è, invece, che gli unici elementi autenticamente interpretativi sono cattedrali nel deserto, collocati sopra a un mondo e a un background praticamente inesistenti, e questo fa perdere loro qualunque tipo di senso.
Si sarà capito che La maschera riposta non considera Fable un buon gioco, soprattutto nell’ottica del giocatore di ruolo autentico. Il grande successo ottenuto è dovuto a nostro avviso al fatto che il gioco è stato apprezzato da utenti in gran parte estranei al genere a cui Fable dice di appartenere. Bastino come prova i giudizi positivi spesso dati al sistema di combattimento, che è quanto di più action si possa immaginare (molto più di quanto sia action Diablo, tanto per capirci). Intendiamoci: sugli scaffali esistono giochi molto peggiori di questo, sia dal punto di vista dei contenuti sia dal punto di vista della programmazione. Ma il metro di giudizio presente in questo sito non considera i videogiochi come un unico calderone dove adoperare sempre lo stesso criterio: qui si bada alla sostanza di un genere particolare, e in questo genere Fable è decisamente insufficiente e a tratti perfino irritante per come ne distorce volutamente l’essenza. Molyneux ha scelto consapevolmente di attirare verso il suo prodotto un tipo di pubblico che era ovviamente destinato a restare profondamente deluso, e questo è senza dubbio un comportamento discutibile. Non ci resta che restare in guardia alla prossima occasione.
Tre pregi di Fable: The Lost Chapters | Tre difetti di Fable: The Lost Chapters |
Grafica carina | Banale, infantile, sciocco, riduttivo |
Buono scripting dei NPC | Interfaccia e sistema di salvataggio terribili |
Sonoro evocativo | Breve |