Il nuovo prodotto di Bioware, auto-nominatosi erede della saga tradizionale forse più amata dai giocatori di ruolo per computer, è un grande capolavoro. E come tutti i capolavori è sfaccettato, multiforme, screziato, discutibile, sconvolgente e sottilmente tragico.
[articolo originariamente pubblicato il 6 gennaio 2010]
1. Emulare le gesta dell’eroe
Non è facile tentare di cogliere linee di sviluppo all’interno di un settore in rapida evoluzione come quello dell’intrattenimento videoludico: la tanto anelata ‘prospettiva storica’, che in altri ambiti si può dire raggiunta solo dopo decenni o addirittura secoli, nel campo del nostro hobby preferito va cercata nell’attimo che segue l’hic et nunc. Quando si può dire che inizi la storia del gioco di ruolo per computer contemporaneo? Molti fissano questo inizio con la pubblicazione di Baldur’s Gate, ambizioso progetto dell’allora semi-sconosciuta casa di sviluppo canadese Bioware, datato 1998. Ancora oggi giocatissimo dalla comunità e citato continuamente come punto di riferimento da tanti appassionati, questo gioco ha segnato l’incipit di un modo di concepire il GdR digitale che potremmo definire ‘totalizzante’: anziché rappresentare la vicenda eroica come entità conchiusa e quasi astratta, la si cala in un vero e proprio mondo, dove l’interazione con l’ambiente e con i suoi abitanti assume un nuovo significato in forza della vastità dell’offerta.
Dal punto di vista della declinazione della componente interpretativa, Baldur’s Gate manifesta, come peraltro capita spesso nei prodotti pionieristici, una identità incerta: al mondo liberamente esplorabile fa da contraltare una struttura a missioni in cui il ruolo trova spazio più attraverso il dialogo che non attraverso la scelta escludente (tipica dei giochi a interpretazione libera). Nei suoi prodotti successivi, Bioware vira in maniera molto chiara verso una idea di interpretazione sempre più ‘condizionata’: in Baldur’s Gate II scompare quasi del tutto la libera esplorazione, mentre in giochi come Jade Empire o Mass Effect la poetica degli autori sembra ormai ruotare esclusivamente attorno alla costruzione di storie epiche e commoventi, che lasciano spazio all’interpretazione in occasione dei momenti di climax, quasi sempre concretizzati attraverso drammatiche scelte morali. Il titolo di cui ci apprestiamo a parlare, molto atteso e in ‘costruzione’ da più di cinque anni, si inserisce in questa linea di sviluppo, ma con una importante particolarità: i suoi autori, tra cui spicca per popolarità e autorevolezza il grande David Gaider, già designer capo dei due Baldur’s Gate (nonché autore di un apprezzato mod per l’espansione del secondo capitolo, intitolato Ascension), hanno fin da subito posto l’accento sul fatto che Dragon Age sarebbe stato il vero erede di Baldur’s Gate. Affermare una cosa del genere significa non solo mettere in fibrillazione la comunità degli appassionati, ma anche far scattare attorcigliati dibattiti su cos’è un classico, su come riproporre nell’oggi ciò che ha avuto successo nel passato, su come far rivivere il successo storico senza ricorrere a triti cliché. Lo stesso sottotitolo imposto al prodotto chiarisce, in uno dei suoi significati, l’intento degli autori: con Dragon Age si torna al gioco di ruolo delle origini. Un assunto che però può voler dire tutto e il contrario di tutto. Cerchiamo di capire cosa vuol dire in questo caso.
2. Istantanea e premessa narrativa
Dragon Age: Origins è un gioco di ruolo in terza persona caratterizzato da visuale mista (dietro le spalle o dall’alto), presenza del party e combattimenti con ‘pausa attiva’. L’ambientazione è originale ma pesca a piene mani dalla letteratura fantasy (da Tolkien a, soprattutto, George R. R. Martin): l’azione avviene in una nazione di nome Ferelden, che appartiene al continente di Thedas e che si trova in una condizione simile a quella dell’Europa nell’età del particolarismo alto-medievale seguito alle migrazioni delle cosiddette popolazioni ‘barbare’. Già sottomesso in passato all’impero di Tevinter, Ferelden si dibatte in una estrema frammentazione politica, accentuata dalla non sempre facile coabitazione tra le sue diverse razze. Esiste un re, a cui rendono conto i feudatari (chiamati “teyrn”), cui a loro volta obbediscono i vassalli (“arl”) e i valvassori (“bann”). La storia dell’intero continente di Thedas è suddivisa in epoche la cui scansione obbedisce, oltre che alla tradizione religiosa, al succedersi ripetuto di un evento drammatico, il cosiddetto “blight”, che altro non è se non la classica invasione demoniaca. Eserciti di creature mostruose (“darkspawn”), generate dall’odio delle antiche divinità sottomesse dal Creatore (“Maker”) e guidate da una di queste stesse divinità in forma di drago (“Archdemon”), invadono le terre del continente, di solito partendo dalle lande sotterranee della civiltà nanica. Il personaggio giocante è un membro di un antico ordine di guerrieri (“Grey Warden”), sorto proprio con il compito di combattere contro i demoni per salvare Thedas.
L’avventura inizia con il moltiplicarsi di segni che anticipano una nuova invasione, la quinta. Compito del nostro eroe è non solo prepararsi per la battaglia imminente, ma anche scongiurare il tentativo di ‘golpe’ messo in atto dal teyrn Loghain, condottiero dell’esercito regio, che tenta di approfittare della confusione generata dall’invasione per scalzare il trono ai legittimi eredi, mettendo a rischio la precaria situazione politica di tutta Ferelden. Gran parte dell’avventura si risolverà appunto in una lunga missione diplomatica atta a mettere assieme i cocci della nazione devastata dalla guerra civile: visiteremo la città nanica di Orzammar, la torre sede del Circolo dei Maghi presso il lago Calenhad, la foresta Brecilian che ospita gli elfi “Dalish” (ossia gli elfi che rifiutano l’omologazione all’uomo) e poi diversi villaggi e la grande città di Denerim, il trono regale. Convincere ciascuna enclave a collaborare con i Grey Warden richiederà la risoluzione di qualche problema, ma l’operazione sarà quasi sempre connessa anche alla scoperta di un nuovo potenziale alleato o di strumenti e abilità atte a rendere sempre più ridotto il vantaggio dell’esercito demoniaco. Non mancano ovviamente le missioni secondarie, molte delle quali sono però assai lineari e poco interessanti, risolvendosi in incarichi trovati in ‘bacheche’ appartenenti a vari ordini e associazioni che offrono ricompense in cambio del ritrovamento di un certo numero di oggetti o dello svolgimenti di semplicissimi compiti di consegna o di uccisione. Varrà la pena tornare sulla struttura narrativa del gioco, che è indubbiamente uno dei suoi punti di forza: prima però cerchiamo di approfondire gli aspetti collegati più direttamente alla giocabilità.
Excursus: sfumature di grigio o sfumature di nero?
Attenzione: spoiler! Il luogo comune, peraltro non privo di elementi di verità, vuole che il gioco di ruolo digitale più complesso da realizzare sia senz’altro quello a esplorazione libera. Mettendo un intero mondo davanti al fruitore, infatti, sarà praticamente impossibile prevedere i suoi comportamenti: gli si darà qualche opzione, sperando che queste opzioni siano soddisfacenti e non si possano combinare tra loro in modo magari poco plausibile. Eppure, anche progettare un gioco a interpretazione condizionata (story-driven) può essere assai complicato. Per essere interessante, infatti, un gioco siffatto deve prevedere una trama profonda e sfaccettata, magari includente temi difficili, capaci di far discutere e di dividere il pubblico. Le problematiche presentate devono prevedere opzioni di risposta abbastanza varie da accontentare tutte le possibili inclinazioni del personaggio giocante: non c’è niente di peggio che tentare di tratteggiare una certa personalità e poi essere costretti dal gioco a compiere una scelta che la contraddice. Da questo punto di vista Dragon Age, pur molto curato sotto l’aspetto delle opzioni morali, mostra con grande evidenza i limiti intrinseci del sistema a risposta multipla e della trama ‘forte’, strutturalmente incapace di abbracciare la varietà dei punti di vista possibili.
In diverse circostanze il gioco pone il fruitore in situazioni dall’esito irrimediabilmente tragico, dandogli la possibilità di scegliere tra soluzioni capaci solo di dirigere la violenza e la distruzione in direzioni differenti, senza alcuna possibilità di catartica redenzione se non attraverso il raggiungimento del ‘bene superiore’ rappresentato dalla conclusione dell’intera vicenda. Questo dà al gioco un sapore filosoficamente maturo, un connotato di profondità saldamente ancorato al ‘reale’, in misura superiore anche rispetto a quel che avviene nell’immenso Planescape: Torment, che stempera la sua carica tragica nell’assoluta unicità e singolarità della storia narrata. Eppure, in alcune occasioni si ha l’impressione che gli sviluppatori abbiano forzato un po’ la mano nell’inserire nella trama alcuni punti fissi eccessivamente caratterizzati in senso drammatico, costringendo il giocatore ad abbandonare temporaneamente la sua interpretazione per diventare un semplice spettatore di eventi su cui si ha la brutta sensazione di non avere alcun reale potere d’intervento. Nella sezione introduttiva della storia, il nostro alter ego viene arruolato nei Grey Warden da un guerriero di nome Duncan, che viene ostentatamente caratterizzato dal gioco come saggio, valoroso e lungimirante. L’entrata nell’ordine, pur imposta dalla trama, può essere vissuta almeno inizialmente in modo abbastanza libero: i dialoghi danno modo di spaziare dall’entusiasmo all’indifferenza cinica, consentendo una buona interpretazione di caratteri differenti. Quando però arriva il momento del vero e proprio rito di iniziazione, l’enfasi drammatica subisce una improvvisa accelerazione e l’alter ego del giocatore si trova coinvolto suo malgrado in un evento scioccante, senza poter fare nulla a riguardo. L’iniziazione consiste nell’ingurgitare il sangue velenoso di un demone: gran parte dei candidati muore, chi sopravvive otterrà dei poteri speciali e sarà membro effettivo dell’ordine. Il primo dei candidati muore dopo atroci spasmi; il secondo, un padre di famiglia simpatico e bonaccione, dopo aver visto la sorte del suo predecessore cerca disperato una via di fuga; in tutta risposta, il saggio e valoroso Duncan lo uccide a sangue freddo. Di fronte a questa demenziale crudeltà, il nostro alter ego non può fare nient’altro che sottoporsi senza fiatare al rito, al quale (ovviamente) sopravviverà. Inutile sperare nella possibilità di mettere in chiaro la propria totale dissociazione da un ordine tanto barbaro e violento: il gioco non concede più di qualche scialba frase perplessa, e il personaggio di Duncan, che muore precocemente per ragioni di trama, continua a essere ricordato, anziché come un pazzo furioso, come un illuminato combattente per la pace e la libertà. Dragon Age è realizzato molto bene, ma tradisce in più punti il fatto che i suoi autori hanno un retroterra culturale abbastanza terrificante.
|
3. Ciascuno ha la sua storia
Dragon Age si fregia del sottotitolo Origins non solo per le sue velleità di riproposizione del classico, su cui poi peraltro ci soffermeremo con dovizia di particolari: la parola rimanda anche a un’altra caratteristica importante del gioco. Non tutti i personaggi iniziano nella medesima situazione: le prime ore dell’avventura, infatti, sono determinate dalla diversa combinazione di razza, classe e background scelti in fase di creazione dell’eroe. Rimandiamo all’excursus razze, classi e origini per ulteriori dettagli; per il momento ci limitiamo a sottolineare il fatto che non si tratta di semplici mini-storie giustapposte alla storia principale ma di autentici ‘innesti’ capaci di modificare anche profondamente le vicende successive, fornendo al giocatore un punto di vista calato nell’ambientazione e favorendo un’immedesimazione di tipo quasi etnografico; un’esperienza relativamente nuova nell’ambito del GdR digitale.
La fase di creazione del personaggio può sembrare, di primo acchito, decisamente semplificata: oltre all’ormai consueto editor ‘estetico’, al giocatore viene offerta la scelta tra tre razze (umano, elfo, nano) e tre classi (guerriero, mago, ladro), liberamente combinabili se si eccettua l’impossibilità per un nano di scegliere la classe del mago. Ciascun personaggio è definito anzitutto da sei attributi di base: la forza (che determina il danno inferto in corpo a corpo e la capacità di indossare armature pesanti), la destrezza (che determina il danno a distanza e la capacità di andare a segno con i colpi), la forza di volontà (che influenza la quantità di mana o stamina a disposizione del personaggio), la magia (che determina la forza degli incantesimi), l’astuzia (che influenza le abilità da ladro e la parlantina) e la costituzione (che determina il numero di punti ferita). A ogni passaggio di livello, il giocatore ottiene tre punti da distribuire tra le caratteristiche di base: il valore di attacco e i punti ferita, comunque, aumentano automaticamente con la crescita di livello del personaggio. Oltre alle caratteristiche, vi sono le abilità: sono identiche per ogni classe, ma il ladro ottiene un punto abilità ogni due livelli, mentre il guerriero e il mago solo uno ogni tre livelli.
Le abilità sono: parlantina (fondamentale nei dialoghi), furto, creazione di trappole, sopravvivenza (consente di individuare i nemici sulla minimappa e aumenta la resistenza al danno naturale), erboristeria, creazione di veleni, addestramento bellico (consente l’apprendimento dei talenti di alto livello), tattiche di combattimento (parleremo estesamente più avanti di questa abilità). A rendere unica ciascuna classe sono i talenti e gli incantesimi: i primi sono relativi a guerrieri e ladri, i secondi ovviamente sono relativi ai maghi. Talenti e incantesimi possono essere di tre tipi: attivabili, prolungati e passivi. I primi vanno attivati durante il combattimento tramite la pressione di un apposito tasto: può trattarsi di un colpo particolarmente potente per un guerriero o di una classica palla di fuoco per un mago. Ogni talento e incantesimo attivabile consuma una certa quantità di mana o stamina, proporzionale alla potenza del gesto. I secondi vanno attivati e, dopo che lo sono stati, rimangono sempre in funzione, ma finché lo sono sottraggono stabilmente una certa quantità di mana o di stamina al personaggio: è il caso delle barriere magiche che possono circondare il mago, oppure delle posizioni di combattimento del guerriero. Incantesimi e talenti passivi, infine, sono sempre attivi una volta appresi e non consumano mana o stamina; spesso però sono collegati a qualche altro talento o incantesimo ed entrano in funzione solo quando lo si utilizza.
A rendere fortemente differenziabili i personaggi intervengono le specializzazioni: ne esistono quattro per ogni classe, e ciascun eroe può selezionarne una al raggiungimento del livello 7 e una seconda al raggiungimento del livello 14 (il completamento del gioco avviene all’incirca attorno al livello 25). Dunque è possibile avere due personaggi appartenenti alla medesima classe di partenza che poi prendono strade di sviluppo molto diverse tra loro; il problema è che le specializzazioni vanno sbloccate durante l’avventura, tramite un addestratore o qualche altro evento particolare; è quindi abbastanza complicato progettare una certa linea di sviluppo, soprattutto durante la prima partita (curiosamente, infatti, lo sblocco delle specializzazioni è collegato all’account del gioco e non al personaggio). Rimandiamo ancora una volta all’excursus razze, classi e origini per ulteriori dettagli; qui ci limitiamo a sottolineare il fatto che ciascuna specializzazione è connessa a un determinato nuovo ‘albero’ di talenti o incantesimi, capaci di variare anche considerevolmente i punti di forza del personaggio e dunque la sua tattica in combattimento.
4. Esplorazione e dialogo
Dopo la creazione del personaggio, ci troveremo a iniziare la storia relativa all’origine del medesimo, entrando così in contatto con il vero motore del gioco. Come già detto, Dragon Age offre essenzialmente due diversi sistemi di controllo: è possibile visualizzare il personaggio in primo piano da dietro le spalle, muovendolo tramite le frecce come in un gioco d’azione, oppure è possibile scegliere una visuale a volo d’uccello e muovere il personaggio tramite mouse, come in un gioco strategico. I nostalgici dei GdR ‘vecchia scuola’ opteranno certamente per questa seconda possibilità, che è anche molto più adatta per tenere sotto controllo un gruppo numeroso di avventurieri. Iniziamo subito col dire che questa visuale funziona sufficientemente bene da non distrarre troppo dal gioco, ma che è lungi dall’essere perfetta.
Anzitutto, il punto di vista talvolta varia repentinamente a causa della presenza di muri o ostacoli, che sarebbe stato sufficiente rendere ‘trasparenti’ per evitare il fastidio (non succede però sempre: a volte gli ostacoli rimangono piazzati davanti all’inquadratura, fattispecie forse ancora più seccante). In secondo luogo, l’inquadratura rimane normalmente centrata sul personaggio selezionato e può essere spostata da esso solo fino a una certa, breve, distanza; l’accorgimento è dovuto forse al fatto che in Dragon Age gli autori hanno scelto di non implementare la cosiddetta “nebbia di guerra”, ossia la simbolica oscurità che pervade le sezioni di territorio non sotto lo sguardo diretto dei personaggi. La spiacevole conseguenza è che è necessario seguire sempre e comunque il percorso effettuato dal party, cliccando continuamente sul terreno a breve distanza dagli eroi, mentre nel glorioso Baldur’s Gate bastava inquadrare la destinazione, cliccarci sopra e aspettare che tutti arrivassero lì. Purtroppo anche Bioware ogni tanto cade nell’incomprensibile tentazione di re-inventare la ruota, con conseguenze non sempre piacevoli.
La prima attività che probabilmente dovremo compiere oltre al semplice movimento è il dialogo: forse il punto di forza maggiore di Dragon Age è proprio l’enorme mole di profonde e interessanti conversazioni, interamente doppiate in modo magistrale, in cui il personaggio si troverà coinvolto. I dialoghi avvengono in modo molto classico, tramite il sistema della scelta multipla: il gioco segnala, se è il caso, le opzioni di risposta che vengono rese disponibili grazie a un elevato livello di parlantina. Si può dire che tutte le decisioni importanti vengono prese proprio durante il dialogo: talvolta, la stessa interfaccia viene utilizzata anche per interagire in modo dettagliato con l’ambiente, per esempio nel corso dei (fortunatamente rari) enigmi di cui sono popolati alcuni sotterranei. A rendere interessanti le conversazioni sono anche gli interventi, nelle medesime, dei membri del nostro party, nonché i frequenti riferimenti alla razza, alle origini e al sesso del personaggio giocante: non ci sarà da stupirsi se, dopo aver terminato l’avventura in settanta o ottanta ore di gioco, quest’ultimo ci segnalerà che avremo completato solo il 60% dei contenuti. Dragon Age è un titolo talmente ricco di sfaccettature da richiedere quasi obbligatoriamente la ‘ri-giocata’.
Excursus: razze, classi e origini
Come abbiamo già accennato, Dragon Age non è particolarmente ricco di opzioni in fase di creazione del personaggio; in compenso, però, offre molte possibilità di personalizzazione nel corso di ciascuna partita, grazie alle specializzazioni sbloccabili durante l’avventura. Le razze disponibili sono tre: umano, elfo e nano. Ciascuna razza dà alcuni bonus a determinate caratteristiche, ma si tratta di un vantaggio che si fa sentire solo nelle prime fasi della partita. La vera scelta importante è quella della classe: umani ed elfi possono scegliere tra guerriero, mago e ladro, mentre i nani solo tra guerriero e ladro. Il guerriero è il classico combattente; i suoi talenti principali sono raggruppati in quattro “scuole”: spada e scudo (concentrata sulla difesa, perfetta per il “tank”), spada a due mani (concentrata sull’attacco, ma capace di rendere il personaggio più vulnerabile), doppia arma (ottima per attacchi fulminei), arco (per attaccare a distanza). Il mago è esperto nelle arti arcane; anche i suoi incantesimi sono raggruppati in quattro “scuole”: elementale (i classici incantesimi offensivi quali la palla di fuoco o la tempesta di neve), creazione (guarigione e potenziamento del party), spirito (magie di manipolazione mentale, telecinesi e scudo), entropia (maledizioni e indebolimenti del nemico). Il ladro è maestro nelle arti del sotterfugio e negli attacchi fulminei; i suoi talenti sono divisi in tre “scuole”, di cui due (doppia arma e arco) condivise con il guerriero; la terza (ladrocinio) include il movimento furtivo, lo scassinamento e la disattivazione di trappole, nonché alcuni trucchi relativi al combattimento. Le specializzazioni sono quattro per ciascuna delle tre classi; probabilmente, però, non riusciremo a sbloccarle tutte nel corso della nostra prima partita. Il guerriero può scegliere di diventare berserker (specializzato nel danno), campione (specializzato nel rafforzamento del party), templare (specializzato nella lotta contro i maghi) o distruttore (specializzato nel danno, ma a costo della sua stessa salute). Il mago può diventare guaritore (specializzato negli incantesimi di cura), mutaforma (specializzato nella trasformazione), guerriero arcano (sorta di multiclasse guerriero-mago) o mago del sangue (specializzato nel danno). Il ladro può diventare assassino (specializzato nel danno), bardo (specializzato nel rafforzamento del party), ranger (specializzato nell’evocazione di creature) o duellante (specializzato in attacchi fulminei). Le classi e le specializzazioni sono ben bilanciate, anche se qualcuna risulta particolarmente potente e difficilmente rinunciabile se si vuole mantenere il gioco su livelli di difficoltà non eccessivi; nello specifico, un party forte non può fare a meno di un mago specializzato nella guarigione (capace di risanare tutti i personaggi in pochi istanti) e di un guerriero templare (capace di bloccare gli incantesimi più potenti dei maghi avversari).
A seconda della combinazione razza/classe scelta, avremo la possibilità di accedere a una o più delle sei “origini” disponibili, che come abbiamo detto sono mini-avventure che fungono da prologo della trama vera e propria. Gli umani che scelgono di essere guerrieri o ladri devono per forza accedere all’origine dell’umano nobile, vestendo i panni del figlio (o figlia) di un potente feudatario di Ferelden. Umani ed elfi che scelgono di essere maghi devono invece accedere obbligatoriamente all’origine del mago, incentrata sul completamento del rito di iniziazione per entrare a far parte del Circolo dei Maghi nell’omonima torre sul lago Calenhad. Gli elfi che scelgono di essere guerrieri o ladri possono accedere a due origini diverse: quella dell’elfo cittadino, che li metterà nei panni di un popolano confinato nel ghetto elfico di Denerim, o quella dell’elfo Dalish, che li vedrà abitanti dell’accampamento elfico del bosco di Brecilian. I nani hanno anche loro accesso a due origini differenti: il nano popolano, che introdurrà il giocatore alla difficile vita dei nani “senza casta”, e il nano nobile, ambientato nell’alta società della città sotterranea di Orzammar. Le origini sono un’idea geniale, come abbiamo già spiegato nel corpo principale della recensione, soprattutto per come introducono il giocatore al mondo di gioco, con un punto di vista di volta in volta diverso e capace di condizionare profondamente il resto della partita. Tutte le mini-campagne sono curate e interessanti, anche se non mancano lievi differenze qualitative; noi abbiamo trovato particolarmente ispirate soprattutto le origini naniche.
|
5. Il combattimento
Oltre al dialogo, l’altro fulcro della giocabilità di Dragon Age è il combattimento. Praticamente qualsiasi missione, sia essa principale o secondaria, richiede la sconfitta di qualche creatura ostile: in alcune zone gli scontri sono davvero numerosi, ma a nostro avviso si tratta comunque di situazioni sempre pertinenti, in cui non si avrà mai l’impressione di essere di fronte a un patetico stratagemma per ‘allungare il brodo’. Quando si troveranno nei pressi di una creatura ostile, i nostri personaggi sguaineranno le loro armi: basterà selezionarli e cliccare con il pulsante destro su un nemico per farli attaccare utilizzando l’arma equipaggiata. L’attacco di base sarà sufficiente per eliminare i nemici più deboli, ma di fronte ai ‘boss’ o nelle situazioni particolarmente critiche sarà necessario far leva sui talenti e sugli incantesimi appresi dai nostri eroi. Basterà un semplice clic su un tasto della barra in basso e poi, eventualmente, sull’area o sul nemico su cui attivare il talento o l’incantesimo, per vederne gli effetti: le magie più estese e dannose, però, richiedono un certo tempo di evocazione, durante il quale il mago può essere interrotto se stordito o se raggiunto da un colpo critico. I talenti dei guerrieri e dei ladri consumano stamina, mentre gli incantesimi consumano mana: stamina e mana si rigenerano durante il combattimento, ma con notevole lentezza (a meno che qualche membro del party non utilizzi qualche abilità che ‘aiuta’ la rigenerazione); inoltre, ciascun talento e ciascun incantesimo ha un certo tempo di ricarica durante il quale non può essere utilizzato. Sarà dunque consueto adoperare un certo talento solo una volta durante uno scontro: spesso la scelta più difficile sarà decidere quando e contro chi utilizzarlo.
Per gestire al meglio il combattimento, Dragon Age implementa una efficace ‘pausa attiva’, marchio di fabbrica dei titoli Bioware fin dall’epoca di Baldur’s Gate: nei combattimenti più difficili sarà necessario mettere in pausa quasi in ogni secondo, così da distribuire con attenzione ordini specifici a ciascuno dei quattro personaggi. Il segreto del successo, in questo gioco, è proprio far lavorare i propri eroi in sinergia, di solito seguendo questo schema: un guerriero ben difeso (il “tank”) attira su di sé l’attenzione dei nemici, costantemente curato da un mago specializzato nella guarigione; nel frattempo, gli altri membri del party tentano di infliggere più danno possibile, badando a non attirare su di sé l’ira delle creature ostili. Si tratta di uno schema molto flessibile, aperto a qualsiasi tipo di sperimentazione: funzionano perfettamente anche gruppi di avventurieri totalmente sbilanciati su un fronte piuttosto che su un altro, purché naturalmente controllati da un giocatore paziente e attento. Se un personaggio vede totalmente azzerati i suoi punti ferita, sviene: la sconfitta però si materializza solo quando tutti i membri del party subiscono questo destino. Se anche un solo eroe alla fine del combattimento rimane in piedi, tutti gli altri si rialzeranno, pronti a proseguire nell’avventura. I punti ferita persi nel corso dello scontro vengono rigenerati rapidamente al termine dello stesso: un accorgimento poco realistico, che ha fatto molto discutere, ma che concretamente funziona davvero bene, dato che consente al giocatore di concentrarsi sull’esito dei combattimenti senza preoccupazioni per il ‘dopo’, con un positivo effetto snellente sulla giocabilità (d’altro canto, vi è ben poco di realistico in qualsiasi combattimento di qualsiasi GdR). Tutto ciò non significa che uno scontro superato sul filo del rasoio non abbia alcuna conseguenza: i personaggi svenuti saranno segnati da ferite talvolta capaci di renderli molto deboli. Tali ferite possono essere rimosse tramite appositi kit medici oppure visitando l’accampamento del party (ne parleremo in dettaglio più avanti).
Da sottolineare è anche il fatto che Dragon Age utilizza, per rendere gli scontri sempre interessanti, il metodo del livellamento automatico: la potenza dei nemici è calibrata a quella del party che li sta affrontando. Il sistema, comunque, è adoperato in modo più attento che in Oblivion e riesce a mantenere chiarissima l’impressione della crescita della potenza dei personaggi nel corso della partita. Complessivamente, i combattimenti in Dragon Age sono realizzati in modo magistrale: dosati con accortezza, complessi senza essere mai frustranti, progettati in modo da consentire un uso creativo di talenti e incantesimi, perfettamente funzionanti in ogni aspetto. Un vero esempio per tutti gli sviluppatori di GdR.
6. Le tattiche
Ogni appassionato di GdR che si rispetti giocherà i combattimenti di Dragon Age utilizzando il metodo descritto sopra: solo la costante attivazione della pausa attiva consente un completo controllo della situazione e lo sfoggio della propria abilità strategica, potenzialmente foriera di grandi soddisfazioni. Nell’epoca del videogioco inteso come intrattenimento di massa, però, bisogna cercare di parlare anche a chi vuole un divertimento meno impegnativo. In questo caso Dragon Age offre due possibilità: un livello di difficoltà regolabile, che se posizionato al livello minimo garantisce una giocabilità veloce ma comunque interessante, oppure il ricorso alla schermata delle cosiddette “tattiche”. Si tratta, in soldoni, di un profondo sistema di personalizzazione dell’intelligenza artificiale dei nostri compagni di viaggio, realizzato tramite un semplice sistema di istruzioni condizionali (la famosa catena “if…then…else”). Ogni personaggio parte con alcune righe di codice a disposizione e ne ottiene altre sia salendo di livello sia tramite la selezione dell’apposita abilità nel corso del suo sviluppo. Tramite le tattiche è possibile programmare in modo dettagliato il comportamento di ogni membro della nostra squadra: per esempio è possibile ordinare al guerriero di usare un certo talento sul nemico più potente (o su quello più debole o più ferito eccetera).
Sono contemplate anche opzioni che favoriscono il coordinamento del gruppo: per esempio, è possibile ordinare a un guerriero di correre a difendere il mago se questi viene attaccato da un nemico. Passando qualche minuto a regolare la schermata delle tattiche, è possibile giocare controllando tranquillamente solo il proprio eroe: un sistema perfetto per gli amanti del gioco d’azione, che magari preferiscono tenere sempre attiva la visuale da dietro le spalle del protagonista anziché quella ‘strategica’ a volo d’uccello. In generale, si può dire che le tattiche funzionano in modo soddisfacente, anche se risulta comunque evidente la loro natura compromissoria: nessuna programmazione delle intelligenze artificiali, per quanto attenta, sarà funzionale come il controllo diretto di ogni elemento da parte del giocatore. Controllo diretto che, tra l’altro, rappresenta uno dei maggiori punti di forza del prodotto, nonché fonte di notevole appagamento dal punto di vista puramente ludico: chi adopera pesantemente la schermata delle tattiche si sta perdendo un bel pezzo di divertimento.
Excursus: i nostri compagni di viaggio Attenzione: spoiler! |
|
Alistair è, come il personaggio principale, un Grey Warden. Pieno di buoni propositi e vagamente ingenuo, può inizialmente apparire monocorde e poco caratterizzato: in realtà nel corso del gioco la sua personalità si approfondisce e può cambiare anche molto in base alle scelte del giocatore. Alistair è un guerriero templare e può legarsi sentimentalmente al protagonista se questi è di sesso femminile. Alistair è doppiato dall’attore britannico Steve Valentine. |
|
Nel campo dei Grey Warden ad Ostagar, dove si svolge il prologo dell’avventura, il nostro eroe incontrerà un bel cane da guerra, che lo seguirà ovunque. Il cane, che potrà avere il nome che preferiremo, è un valido combattente e ha talenti esclusivi, ma verrà presto superato in potenza da altri compagni. Se il nostro personaggio è un umano nobile, il cane è il suo e quindi è presente anche nella “origine”. | |
Morrigan è una inquietante maga che vive da eremita in un bosco assieme alla madre Flemeth. Dopo un incontro fortuito, ci seguirà nell’avventura, per motivi non ben chiari (ma che si chiariranno nelle ultime fasi della trama). Misantropa, cinica e meschina, Morrigan è sicura del fatto suo e sprigiona un intenso fascino ‘dark’. Morrigan è una maga mutaforma e può legarsi sentimentalmente al protagonista se questi è di sesso maschile. Morrigan è doppiata dall’attrice australiana Claudia Black. |
|
Leliana è una giovane e bella ragazza proveniente da Orlais, nazione confinante con Ferelden e ispirata alla Francia. Fortemente devota al Creatore e alla sua profetessa Andraste, è uscita dal Chantry per le sue vedute poco ortodosse. Leliana è leziosa e raffinata, ma la sua personalità cela lati inaspettati. Leliana è una ladra barda e può legarsi sentimentalmente al protagonista indipendentemente dal suo sesso; la sua magnifica doppiatrice è l’attrice francese Corinne Kempa. |
|
Sten è un valoroso combattente appartenente alla razza dei Qunari, proveniente dalle isole del nord. Lo incontreremo nella fase iniziale della partita, imprigionato in quanto reo confesso di un vero e proprio massacro. Violento, criptico e introverso, Sten è un guerriero specializzato nelle armi a due mani. Il suo doppiatore è l’attore canadese Mark Hildreth. |
|
Zevran è un elfo membro degli Antivan Crow, gruppo di mercenari che esegue uccisioni su commissione. Il suo primo obiettivo è proprio il nostro personaggio, che però naturalmente sfuggirà alla morte: in cambio della vita, Zevran accetterà di collaborare con il nostro party. Disincantato, edonista e individualista, Zevran è un ladro assassino e può legarsi sentimentalmente al protagonista indipendentemente dal suo sesso; il suo doppiatore è l’attore statunitense Jon Curry. |
|
Wynne è uno dei decani del Circolo dei Maghi. La incontreremo già a Ostagar, ma si unirà a noi solo dopo che avremo ‘salvato’ il circolo. Anziana, saggia e pacata, è, contrariamente alle apparenze, uno dei personaggi più potenti del gioco. Wynne è una maga guaritrice ed è doppiata dall’attrice statunitense Susan Boyd. |
|
Oghren è un nano di Orzammar, caduto in disgrazia da quando sua moglie Branka l’ha abbandonato per cercare un tesoro nelle strade sotterranee. Dopo che l’avremo aiutato a ritrovarla, si unirà al gruppo: Oghren è un buontempone e, come tutti i nani, è spesso completamente ubriaco. Il suo doppiatore è l’attore statunitense Steve Blum. |
|
Shale è un golem che troveremo, disattivato, nel bel mezzo di un villaggio invaso dai demoni. Dopo averlo riattivato, si unirà al nostro party. Pur non essendo una creatura vivente, Shale ha un ‘carattere’ interessante ed è dotata di un set di talenti esclusivi, che la rendono particolarmente potente contro i nemici. Shale è doppiata dall’attrice Shawn Pertwee ed è parte del plugin ufficiale The Stone Prisoner, già incluso in tutte le edizioni del gioco. |
|
Il decimo potenziale compagno… non ve lo diciamo, dato che sarebbe uno spoiler troppo grosso. Vi basti sapere che potrà unirsi al gruppo solo nelle ultime fasi della partita. |
7. L’interfaccia
Oltre alla visuale di gioco principale, Dragon Age offre altre consuete schermate, necessarie per tenere sotto controllo la situazione degli eroi e dell’avventura. La più ‘visitata’ è probabilmente quella dell’inventario: organizzato come un elenco ‘filtrabile’ e comune a tutti i personaggi, è decisamente funzionale anche se alcuni aspetti potevano essere più curati. Ciascun oggetto è rappresentato da un’icona e da una piccola descrizione testuale; un testo più approfondito può essere visualizzato agendo su un piccolo menu circolare attivabile tramite la pressione del tasto destro del mouse. Il fatto che l’inventario sia comune a tutto il party rende la lista assai affollata, con tutte le conseguenze del caso; in particolare, quando otteniamo un oggetto da qualche personaggio non giocante (magari come ricompensa dopo lo svolgimento di una missione), sarà assai arduo riuscire a identificarlo nella messe di cianfrusaglie presenti nello zaino, e da questo punto di vista aiuta poco anche la cornice lampeggiante che evidenzia gli oggetti ‘nuovi’ rispetto alla apertura dell’inventario precedente. La quantità di oggetti che il party può trasportare è predefinita e non ha nulla a che fare con la forza dei personaggi; può comunque essere estesa, nel corso dell’avventura, tramite l’acquisto di appositi ‘ampliamenti’ in vendita presso alcuni mercanti.
Il commercio avviene in maniera molto classica: interagendo con un mercante vedremo la lista delle sue merci affiancata a quella delle merci in nostro possesso, e basterà trascinare gli oggetti da una lista all’altra per comprare e vendere (in Dragon Age le monete hanno tre tagli differenti: oro, argento e bronzo). Per facilitare la scelta di armi e armature, un apposito menu a tendina consente di confrontare gli oggetti in vendita con quelli equipaggiati dai vari membri del party. Alcune armi possono essere incantate tramite rune per aumentarne il danno o per aggiungere effetti particolari: le rune possono essere inserite o disinserite a piacere, quindi è possibile sperimentare liberamente senza temere di ‘perderne’ qualcuna. L’altra schermata di importanza fondamentale è quella del diario: le missioni in corso sono raggruppate sulla base della locazione in cui sono collocate (quelle relative alla trama principale, però, hanno la loro categoria, così come quelle connesse ai membri del party).
Un’altra sotto-schermata elenca le missioni risolte, e un’altra ancora è dedicata invece al grandioso “Codex”, ossia alle informazioni sul background del gioco, riunite in una sorta di enciclopedia in un florilegio di libri, descrizioni, appunti e commenti sulle fasi dell’avventura e sulle diverse e profonde sfaccettature che caratterizzano il mondo di gioco. Il lavoro di Bioware è stato, da questo punto di vista, davvero eccezionale: l’universo di Dragon Age compensa la sua fin eccessiva indulgenza per i cliché del fantasy con una attenzione per il dettaglio e una coerenza interna che difficilmente si possono trovare non solo nella produzione videoludica ma anche in quella letteraria (rimandiamo all’excursus Tra fantasy e realtà per ulteriori dettagli). Oltre alle schermate dedicate alle caratteristiche dei personaggi e ai loro talenti e incantesimi, segnaliamo poi la presenza dell’immancabile minimappa, che rappresenta il territorio su cui si sta muovendo il party, ampliandolo in corrispondenza dei nuovi movimenti di quest’ultimo: sulla mappa sono anche indicate le destinazioni delle missioni in sospeso, nonché la posizione dei nemici se qualcuno dei nostri personaggi ha una alta abilità nella sopravvivenza.
8. La struttura del mondo
Dragon Age è un gioco story-driven nel senso più stretto del termine: non esiste esplorazione libera e le locazioni rappresentate sono ‘costruite’ in funzione delle missioni che devono essere svolte al loro interno. La campagna inizia con le origini del personaggio; dopodiché si deve passare attraverso una sorta di ‘prologo’ che fissa le coordinate iniziali della vicenda. Al termine di questa fase, il nostro party può accedere alla mappa globale: da lì può scegliere di recarsi in diverse locazioni, ciascuna relativa a un pezzo della trama principale, che in questa fase centrale (la più estesa del gioco) può essere affrontata secondo l’ordine preferito dal giocatore. Ciascuna locazione principale si divide in varie mappe separate, talvolta collegate tramite ulteriori mappe globali: è il caso del mondo sotterraneo dei nani o della grande città di Denerim. Alcune missioni secondarie fanno comparire sulla mappa del mondo altre locazioni, che in genere non sono più visitabili dopo la conclusione della quest a cui sono collegate. Lo spostamento da una locazione all’altra avviene tramite l’astratta rappresentazione di una ‘scia’ di sangue tra i due luoghi nella mappa globale; talvolta, però, il viaggio viene interrotto da incontri casuali, che possono risolversi in semplici scontri con briganti ma anche in episodi molto importanti, collegati alla trama principale. Nelle mappe di gioco vere e proprie, ogni luogo viene rappresentato in modo sommario, senza nessun tentativo di pervenire a una qualche immagine globale e offrendo una interazione veramente minima: la grande città di Denerim si risolve nella zona del mercato, in qualche piccola stradina infestata da briganti e in un paio di palazzi del potere; l’enorme foresta Brecilian si risolve in tre piccole mappe ‘selvagge’ in cui gli unici percorsi disponibili sono quelli che conducono agli obiettivi delle missioni; e così via. Ad aumentare la sensazione che ci si trovi di fronte a una rappresentazione quasi astratta del mondo descritto dal Codex è anche un’altra particolarità del gioco, che lascia francamente abbastanza di stucco: in Dragon Age non è prevista nessuna rappresentazione dello scorrere del tempo.
Non c’è il ciclo giorno/notte, anzi non c’è nemmeno un’ora precisa: le azioni dei nostri eroi sono proiettate in una dimensione a-temporale e ‘simbolica’, quasi si trattasse dello svolgimento di un racconto anziché di un’avventura ‘autentica’, per quanto questo si possa dire di un mondo digitale. I personaggi non giocanti non hanno alcun tipo di routine e non sono governati da nessuna intelligenza artificiale: si limitano a stare dove devono, assecondando le necessità della storia e del dipanarsi delle sue parti. I programmatori hanno scelto consapevolmente di abbandonare qualsiasi tipo di pretesa simulativa, anche a costo di arretrare di anni nelle modalità di rappresentazione del mondo (non dimentichiamo che il vecchio Baldur’s Gate implementa lo scorrere del tempo, il mutare delle condizioni atmosferiche e anche qualche rudimentale routine da parte dei PnG), pur di concentrare l’attenzione sulla storia. E la cosa più sconvolgente è che tutto questo fa molta impressione se lo si scrive, ma dà pochissimo fastidio nel momento in cui si sta effettivamente giocando: Dragon Age è narrato troppo bene perché ci si perda a considerare questi dettagli. Quando nei forum degli appassionati riparte periodicamente la discussione su come debba essere il “GdR perfetto”, immancabilmente spunta qualcuno a vagheggiare l’unione di world-driven (esplorazione libera e simulazione del mondo, à la Oblivion o Morrowind) e story-driven (centralità della storia a scapito del mondo, à la Dragon Age, appunto). In realtà si tratta di due modi di fare GdR assolutamente inconciliabili, per motivi che abbiamo già trattato nell’articolo Cos’è un gioco di ruolo? Dragon Age è la prova ulteriore e definitiva di questa inconciliabilità: una storia raccontata bene è talmente coinvolgente e ‘totalizzante’ da consentire ai suoi autori scelte di design talmente azzardate e riduzionistiche sul piano simulativo da apparire assolutamente inaccettabili se spiegate a parole. Eppure la realtà è questa: nessuno sano di mente, di fronte a una storia ben raccontata, si preoccupa se durante un certo momento è giorno o è notte, se questo non ha nulla a che fare con gli eventi narrati. Se la storia è ben narrata, si ha l’urgenza di seguirla: se si vuole viceversa simulare un mondo e dare al giocatore la possibilità di ‘viverlo’, è più che mai necessario ricorrere a una storia ‘leggera’, piena di tempi morti, o addirittura a nessuna storia.
Excursus: tra fantasy e realtà
Attenzione: spoiler! Il background creato da Bioware per Dragon Age è profondo e interessante, soprattutto perché pone l’accento su problematiche di forte attualità, quali la convivenza tra diversi, il rapporto della religione con il potere, la violenza con cui quest’ultimo raggiunge i suoi scopi. Le risposte offerte dai programmatori sono talvolta semplicistiche, ma va sicuramente apprezzato il tentativo di andare oltre la superficialità delle apparenze: non rischia nulla dal punto di vista dei contenuti solo chi non racconta nulla. Particolarmente curiosa risulta, in quest’ambito, la quantità di somiglianze che la storia di Ferelden manifesta con la storia ‘vera’. Abbiamo già citato la vicinanza tra il precario equilibrio del sistema politico di Ferelden e la situazione storica europea nell’età del particolarismo alto-medievale; ma ci sono occasioni in cui le vicende narrate ricordano da vicino tematiche di scottante attualità. Un ottimo esempio sono gli elfi Dalish: la razza elfica dominava incontrastata il continente di Thedas, nell’antichità, ma venne ridotta in schiavitù dall’invasione degli umani. Nell’epoca in cui è collocato il gioco, molti elfi vivono in ghetti all’interno delle città e in molti casi continuano a essere schiavizzati dagli umani o comunque a essere privati dei loro diritti più elementari; gli elfi più combattivi, però, non rinunciano alla loro tradizione e vivono nelle foreste, lavorando per la riconquista di almeno una parte del loro antico potere e soprattutto del loro antico stile di vita. Il modo in cui la storia elfica viene raccontata dai Dalish ricorda parecchio le vicende del popolo di Israele, con tutti i lati chiari e i lati scuri irrimediabilmente collegati alla faccenda; inoltre, la migrazione di massa intrapresa dai Dalish verso territori incontaminati per fuggire alla morsa del potere umano viene chiamata La Lunga Marcia, con evidente riferimento all’impresa compiuta da Mao durante la guerra contro il Kuomintang in Cina.
Forse ancora più interessante è il modo in cui gli autori hanno tratteggiato la tematica religiosa. Nell’antichità, gli esseri umani veneravano gli Old God, una schiera di potenti draghi che, avendo sfidato il potere del Creatore, erano stati confinati sottoterra dal medesimo. La prima invasione demoniaca venne causata proprio dalla corruzione diffusa da questi draghi, capace di trasformare in prole oscura perfino i più potenti maghi dell’impero di Tevinter. Con le invasioni barbariche che costringono l’impero ad arretrare da Ferelden, emerge la figura di una profetessa, Andraste: la sua predicazione è incentrata sulla necessità di adoperare la magia per servire l’uomo anziché per fomentare guerre, nonché sulla nozione che l’unico vero dio è il Creatore, mentre gli Old God sono solo potenti creature terrene. Andraste, chiamata dai suoi seguaci la “sposa del Creatore”, viene tradita dal suo compagno Maferath e martirizzata: dopo questo evento, il culto del Creatore e della sua profetessa inizia a diffondersi in tutto Thedas, fino a diventare una vera e propria chiesa istituzionalizzata, il “Chantry”, dotata di riti e credenze complesse. La somiglianza storica del passaggio tra il dominio dell’impero di Tevinter e la Ferelden ‘barbarica’ con il passaggio dall’Impero Romano all’età altomedievale trova puntuale riscontro anche nelle vicende religiose: Andraste è chiaramente modellata sulla figura delle martiri cristiane, a tratti ricorda lo stesso Gesù oppure Maria, e la sua polemica contro gli Old God è del tutto simile alla polemica cristiana contro i culti pagani. L’aspetto forse più interessante della faccenda è che finalmente anche in un videogioco la religione viene rappresentata anzitutto come un prodotto culturale, legato ai mutamenti della politica e dell’economia. Andraste è un personaggio storico frutto del suo tempo, successivamente mitizzato dagli epigoni: il suo “Creatore” non dà alcun segno della sua esistenza, se non nelle visioni di qualche personaggio borderline (come la nostra Leliana). Certo, anche in questo caso non mancano gli svarioni (come le ceneri di Andraste, dotate concretamente di miracolosi poteri taumaturgici), ma il passo avanti rispetto alla solita religione ‘da videogioco’, vista come racconto di fatti reali anziché come un prodotto culturale, mi pare assolutamente evidente.
|
9. L’accampamento e il party
Quando si esce da una ambientazione accedendo alla mappa del mondo, si può anche scegliere, come destinazione, l’accampamento del nostro gruppo di avventurieri. In questo contesto il giocatore controlla solo il proprio personaggio, ma può incontrare tutti gli altri potenziali membri della squadra, inclusi quelli che non fanno parte del party ‘attivo’. Si tratta del momento migliore per conversare con i propri compagni di viaggio, cercando di approfondire il rapporto con loro, in senso negativo o positivo. Com’è sua tradizione, Bioware ha sviluppato molto questo aspetto del gioco, tratteggiando per ciascun membro del gruppo una personalità interessante e sfaccettata, e offrendo possibilità di interazione anche inedite. Rimandiamo all’excursus i compagni di viaggio per ulteriori dettagli sui singoli personaggi; qui ci limiteremo ad analizzare le modalità generali di approccio con i nostri compagni.
La maniera più diretta per approfondire la conoscenza è ovviamente il dialogo, che può avvenire sia nelle normali mappe di gioco sia nell’accampamento. Nel primo caso, però, l’interlocutore offrirà soprattutto qualche consiglio su come superare l’attuale segmento della trama; per parlare di faccende più personali è meglio aspettare la privacy offerta dall’accampamento. Lì i nostri compagni accettano di buon grado di parlare delle loro sensazioni e del loro passato, purché ovviamente abbiano un certo grado di apprezzamento per il nostro personaggio principale. Tale grado viene espresso simbolicamente tramite una scala da 1 a 100 e può essere variato in molti modi: attraverso le scelte di dialogo nell’accampamento, ma anche attraverso le scelte di gioco compiute durante la trama principale, nonché attraverso i ‘regali’. Questo concetto è totalmente nuovo in un gioco Bioware e merita di essere approfondito. Ogni tanto il nostro eroe si imbatterà in qualche oggetto caratterizzato come ‘regalo’: una volta in accampamento, potrà provare, tramite un apposito tasto, a darlo a uno dei membri del party per vedere la sua reazione. I regali hanno sempre un effetto positivo, ma tale effetto può variare in modo notevole in base alle circostanze: ogni nostro compagno ha i suoi gusti e le sue ‘manie’ e bisogna imparare a conoscerli per riuscire a dare gli oggetti giusti alla persona giusta. Se dopo aver fatto il regalo l’unico risultato che vediamo è l’aumento di un punto nel grado di apprezzamento, significa che abbiamo sbagliato qualcosa: probabilmente quell’oggetto avrebbe fatto più piacere a qualcun altro. Se invece vediamo un aumento di ben 10 punti, il regalo è stato decisamente azzeccato; se parte addirittura un dialogo, non potevamo fare una scelta migliore. Talvolta le missioni secondarie relative ai personaggi del party iniziano proprio in seguito alla consegna di un regalo; in ogni caso, far aumentare il grado di apprezzamento è sempre positivo, dato che solo un personaggio legato al nostro eroe aumenterà le sue confidenze.
Raggiungendo certi livelli di intimità con un compagno, avremo modo di sbloccare qualche sua abilità speciale passiva, che si concretizza quasi sempre nell’aumento di una caratteristica. Se il livello di confidenza raggiunto è davvero alto, può scattare la “romance”, ossia l’innamoramento. Anche da questo punto di vista Bioware ha fatto passi da gigante, soprattutto sul piano dell’abbandono di un certo atteggiamento politically correct visto in altri suoi titoli, che sembravano sviluppare questa tematica all’insegna del “vorrei ma non posso”. Si può dire tranquillamente che in Dragon Age quasi ogni inclinazione sentimental/sessuale è contemplata: sono previste storie d’amore omosessuale sia tra maschi sia tra femmine, c’è il sesso a pagamento, c’è il sesso fatto solo per il gusto di farlo, c’è addirittura la possibilità di organizzare un’orgia, partecipandovi. Mantenere felice e soddisfatto ogni nostro compagno di viaggio potrebbe essere complicato: ognuno di loro ha un suo ‘punto di rottura’ che corrisponde a un determinato evento della trama o della sua missione personale, o anche che arriva semplicemente dopo un certo numero di altri eventi. Sarà necessario gestire con attenzione il tutto, pena l’abbandono dell’avventura da parte dell’interessato; abbandono che peraltro potrà sempre avvenire anche a causa di un eccessivo abbassamento del grado di apprezzamento per il nostro eroe. L’aspetto forse più ammirevole di questo ambito del gioco è la capacità con cui Bioware è riuscita a tratteggiare vicende personali interessanti in sé, ma fortemente legate alla trama e all’ambientazione: occuparsi dei problemi di quel nostro compagno di viaggio non dà mai la sensazione di star ‘perdendo tempo’ rispetto ai problemi impellenti connessi alla trama principale, perché tutto si lega, la tensione drammatica non si allenta, le tessere del puzzle continuano a combaciare, anche se magari in direzioni diverse.
10. Le gesta dell’eroe sono state emulate?
In generale, Dragon Age ricorda sicuramente la serie Baldur’s Gate, in particolare il secondo capitolo, che come abbiamo avuto modo di spiegare è sensibilmente differente dal primo (che ha anche una forte componente di libera esplorazione). Probabilmente la parte in cui i due capolavori sono più affini è il combattimento, dotato in entrambi i casi di una fortissima componente tattico-strategica, capace di regalare molte soddisfazioni, nonché totalmente scevro da qualsiasi componete ‘action’, in ossequio al principio più elementare che sta alla base del gioco di ruolo, ossia la separazione tra giocatore e personaggio. Eppure noi siamo dell’avviso che mettere troppo vicino questi due titoli possa dar adito anche a qualche equivoco: Dragon Age contiene caratteristiche che lo avvicinano anche ad altri titoli Bioware, configurandosi in ultima istanza come una sorta di ‘summa’ del GdR come concepito da questa grande casa di sviluppo canadese. Più che di fronte alla resurrezione del classico ‘defunto’, siamo dunque di fronte alla miglior sintesi possibile di un decennio costellato da grandi produzioni, grandi idee, passi falsi e lunghe polemiche tra gli appassionati.
Anzitutto, nonostante ambientazione e sistema di combattimento siano quanto di più lontano si possa immaginare, ci sono punti di contatto piuttosto evidenti tra Dragon Age e Mass Effect: per esempio il Codex, ma soprattutto l’accampamento, che corrisponde in tutto e per tutto alla Normandy, l’astronave di Shepard, dove tra una missione spaziale e l’altra si aveva modo di confrontarsi con i compagni e di aggiustare l’inventario. Soprattutto, Dragon Age è costruito narrativamente sulla base di un canovaccio estremamente semplice, caratterizzato da una banalità quasi disarmante, che si ritrova identico a se stesso in quasi tutti i titoli Bioware a partire dal glorioso ma irrisolto Neverwinter Nights. Stupisce che nessuna recensione, almeno tra quelle lette da noi, abbia notato e fatto notare che la trama di Dragon Age, tanto incensata, ha uno svolgimento incredibilmente simile a quello del primo capitolo della campagna originale di Neverwinter Nights, tanto vituperato da pubblico e critica proprio per la sua inconsistenza narrativa. Piccolo riassunto. Il primo capitolo di Neverwinter Nights ruota attorno alla necessità di recuperare quattro ingredienti per un rito magico contro una pestilenza che ha colpito la città di Neverwinter. Dopo una prima fase lineare, che corrisponde al tutorial e alla messa in campo dell’introduzione narrativa, il giocatore è libero di muoversi nella città: in realtà può solo recarsi verso quattro distinti quartieri, ciascuno dei quali cela uno dei quattro ingredienti necessari. In ogni quartiere si imbatterà in un ‘problema’, che dovrà essere risolto quasi sempre a suon di combattimenti contro creature di volta in volta diverse; una volta ‘risolto’ un quartiere, la sua locazione e quelle annesse resteranno disponibili, ma avrà senso visitarle nuovamente solo per completare qualche missione secondaria. Una volta trovati tutti e quattro gli ingredienti, è possibile accedere alla sequenza finale, che si risolve nella visita a un’altra locazione (la città di Luskan), caratterizzata da una progressione di combattimenti sempre più complessi, fino allo scontro con il ‘boss’ finale, il responsabile della dispersione degli ingredienti. Lo svolgimento della campagna di Dragon Age è identico: fase iniziale introduttiva, fase centrale non lineare caratterizzata dalla necessità di recuperare quattro alleati in vista della battaglia finale (nani, elfi, maghi e feudatari umani), fase conclusiva lineare caratterizzata dalla progressione di combattimenti. Un canovaccio davvero banale, come abbiamo già detto. Come mai allora tutti concordano nell’incensare la trama di Dragon Age e quasi tutti concordano nell’affossare quella di Neverwinter Nights? La risposta è molto semplice: sono i dettagli a fare la differenza. In Dragon Age sono triti e prevedibili sia lo scheletro del racconto (bisogna salvare il mondo dai demoni invasori e fermare il pazzo che vuole approfittare della situazione per prendersi il potere) sia lo scheletro della modalità narrativa: ma è superlativa la padronanza con cui gli autori squadernano tutto ciò davanti agli occhi del fruitore, senza lasciare nulla al caso, con una scrittura incredibilmente profonda e una capacità di gestire la tensione drammatica che probabilmente non si era mai vista prima in un GdR per computer. Dragon Age non è l’erede di Baldur’s Gate: è la ciambella che è finalmente uscita con un buco perfetto dopo dieci anni di più o meno riusciti tentativi.
11. Estetica
Dragon Age sfoggia un motore grafico realizzato dai suoi stessi autori per l’occasione. Si tratta di un comparto funzionale e discreto, anch’esso al servizio della storia, come un po’ tutte le altre componenti di questo prodotto. Nulla fa gridare al miracolo dal punto di vista grafico, tranne forse le espressioni dei visi, a tratti davvero commoventi. Le texture sono appropriate ma talvolta poco definite, gli ambienti sono spesso essenziali, i paesaggi naturali mostrano un minimalismo spesso poco convincente. In generale, l’estetica ricorda forse quella di Neverwinter Nights 2, un gioco con ormai diversi anni sulle spalle; solo la resa dei personaggi e, come già detto, delle espressioni merita un plauso notevole, a tutto vantaggio delle cinematografiche inquadrature utilizzate durante i dialoghi. Nell’insieme, comunque, il gioco appare sufficientemente caratterizzato anche dal punto di vista estetico, e la scarsa pesantezza del motore grafico ha indubbie ricadute benefiche per quel che riguarda l’hardware necessario a far girare il tutto.
Dal punto di vista stilistico, alcune trovate meritano di essere adeguatamente segnalate. Anzitutto, Dragon Age è un gioco particolarmente ‘sanguinoso’, fin dal suo logo: al termine di un combattimento, i nostri eroi saranno pieni di macchie di sangue da tutte le parti, anche sul viso. Questo violento iper-realismo caratterizza fortemente l’estetica del prodotto e risulta meno offensivo alla vista di quel che potrebbe sembrare a parole; in ogni caso, può essere tranquillamente disattivato da chi non gradisce. I combattimenti sono animati in modo superbo: talvolta, l’eroe responsabile del colpo fatale si esibisce in mosse virtuosistiche, che nel caso di mostri particolarmente potenti si accompagnano a un effetto rallentato che permette di coglierle in tutta la loro epicità (può far storcere il naso, d’altro canto, l’interruzione che tali sequenze impongono al naturale scorrere dello scontro). I nemici più grossi, una volta abbattuti, ‘producono’ veri e propri laghi di sangue che si allargano lentamente attorno al cadavere: effetto interessante, che però viene un po’ rovinato dal fatto che viene riprodotto ogni volta che il cadavere viene inquadrato nuovamente (anche dopo la ricarica di un salvataggio!)
Un plauso incondizionato merita invece il comparto sonoro: le musiche sono epiche e riconoscibili, gli effetti sonori appropriati e convincenti, il doppiaggio inglese, come già detto, assolutamente magistrale. Sottolineiamo, in particolare, l’enorme quantità di doppiatori utilizzati e l’assenza di qualsivoglia sovrapposizione di voci tra personaggi: un’altra lezione per gli altri sviluppatori, che spesso risparmiano in un ambito che è invece fondamentale per la buona riuscita del prodotto.
12. Conclusioni
Come abbiamo cercato di far notare in più punti della recensione, Dragon Age non è quel gioco ‘quasi perfetto’ in grado di farci gridare al capolavoro dopo pochi minuti di utilizzo, anche se è ottimamente curato in tutti i suoi aspetti. Non è nemmeno un prodotto in grado di accontentare tutti i palati, anche se la sua costruzione permette una fruizione a livelli diversi. Piuttosto, questo lavoro si concretizza come il più riuscito manifesto ‘poetico’ di Bioware, che ha ormai una sua idea precisa di GdR digitale e che non si preoccupa di realizzarla in termini che potremmo definire quasi ‘estremistici’. Un atteggiamento che non ha mancato di scatenare gli strali degli immancabili appassionati insoddisfatti, pronti a criticare uno sviluppatore per un motivo e un altro per il motivo opposto. In realtà Bioware non ha solo dimostrato di aver ragione nell’essere così estremista: ha dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che è sempre meglio dedicarsi a ciò che ci caratterizza e che ci viene meglio, anziché prodursi in improbabili ‘cerchiobottismi’. Nel panorama generale del gioco di ruolo digitale, possiamo dire con sicurezza, mettendo da parte ogni preferenza personale e mirando alla più alta onestà intellettuale, che non esiste nessun’altra casa di sviluppo che si possa paragonare a Bioware in quanto a chiarezza di propositi e a capacità di concretizzarli in termini che oserei definire ‘eroici’. Cos’altro aggiungere per rendere un acquisto ancora più consigliabile?
Tre pregi di Dragon Age: Origins
|
Tre difetti di Dragon Age: Origins
|
Narrazione impeccabile, approfondita e piena di tocchi di classe
|
Gestione della telecamera migliorabile
|
Combattimenti funzionali, appaganti e ottimamente bilanciati
|
Trama basata su un canovaccio fin troppo banale e prevedibile
|
Dialoghi magnificamente scritti e magnificamente doppiati
|
Prevalenza forse eccessiva dell’astrazione sulla simulazione
|
Buonasera Mosè! Quest’oggi scrivo per esprimere delusione. Provocata dal titolo in questione, Dragon Age: Origins. Da tempo possiedo la sua versione Ultimate, completa di DLC ed espansione Awakening (in un poscritto le rivolgerò una domanda su quest’ultimi, se non le dispiace), ma solo qualche giorno fa mi sono messo a giocarci; ho purtroppo pochissimo tempo libero da dedicare al PC. Ebbene DA:O mi ha riservato una pessima prima impressione. Seriamente, peggio di così non poteva andare. Elaboro: intenzionato ad interpretare un personaggio egualmente versato nel combattimento e nella diplomazia, ho selezionato per la mia primissima partita un Nano nobile. Rimarrò vago e tralascerò i nomi dei protagonisti per evitare spoiler. Perno di questa “origin” è un tradimento, il cui responsabile è chiaro sin da subito, o così parrebbe… OK, questo in teoria: in realtà la presunta “sorpresa” finale è estremamente prevedibile, e il vero traditore identificabile dal primo momento. Il gioco si prodiga in patetici tentativi di depistaggio, ma è sufficiente grattare la superficie e fare 2+2 per capire chi abbia veramente da guadagnarci a togliere di mezzo i due litiganti e carpire il primo premio. Non lo dico per vantarmi: sono sicuro che una larga fetta di giocatori sia giunta alla conclusione corretta in largo anticipo, in questo decennio. Di per sè non è un male, DA:O non è certo un poliziesco. Il grave problema è l’assenza di interpretazione. Il protagonista è impossibilitato a porre questioni ovvie, non può investigare i sospettati ed è costretto a farsi trascinare dagli eventi senza potersi opporre in alcun modo. La conseguenza, nel mio caso, è stato uno scollamento totale tra giocatore e personaggio, con immersione e sospensione dell’incredulità andate a farsi benedire: all’improvviso, mio malgrado, non ero più in un mondo fantastico a vivere avventure straordinarie, ma seduto alla mia scrivania a biascicare improperi verso Bioware e le sue trame insulse. Ora, sono perfettamente consapevole dei limiti intrinseci al CRPG, e non pretendo certo che gli sviluppatori possano ricreare tutto e il contrario di tutto all’interno dei loro giochi; tutto ciò che chiedo è un contentino, una linea di dialogo al termine della vicenda per lasciarmi capire che Bioware “sa che io so”. Qualcosa come “sospettavo di X dal principio, ma non credevo si sarebbe mosso così in fretta” o anche “eppure era così ovvio! X, come ho fatto a non capirlo subito”. E invece no, gli scrittori sembrano provare gusto nel rigirare il coltello nella piaga e i dialoghi finali sono tutto un fiorire di “oooh, X è così astuto, ci ha messo tutti nel sacco, X è il migliore” e mi sembra di vederli sghignazzare mentre immaginano i giocatori a bocca aperta davanti ai loro colpi di scena incredibili. Non dubito che più avanti nella trama il mio Nano avrà occasione di vendicarsi, ma francamente non me ne importa granchè. Se non è stato in grado di prevedere un inganno di una tale trasparenza, merita ogni punizione assegnatagli. Chissà se Dragon Age riuscirà a farsi perdonare questo peccato originale? Vedremo. Saluti e salute.
P.S.
Ed ecco la domanda circa Awakening e i suoi fratellini: farei bene ad evitarli completamente, considerando che non acquisterò DA2? Essi, mi par di capire, anche dalla sua recensione, sono più che altro un metodo per scombinare il finale chiuso di Origins e giustificare un sequel con importazione di salvataggi. O sbaglio? Ringrazio in anticipo per la risposta.
Non ricordo la storia dell’Origin a cui fa riferimento (non ricordo nemmeno se l’ho mai giocata, in tutta sincerità) ma capisco l’insofferenza. Non c’è niente di più frustrante in un GdR di non trovare nessuna opzione che almeno rassomigli all’interpretazione che si ha in mente. Mi sovvengono due fattispecie: nello stesso DAO durante il rito di iniziazione dei Grey Warden la possibilità di rifiutarlo, fosse anche con un game over, non è contemplata; in BG2 durante la missione di Cernd il personaggio giocante è costretto a fargli la morale e non può in alcun modo solidarizzare con lui. Come scrivo in questa stessa recensione, un’opera dell’ingegno è anzitutto un ‘ritratto’ dei suoi autori.
Volendo fare un discorso più generale, comunque, credo che da Mass Effect/DAO Bioware abbia davvero posto l’accento più che in passato sulle scelte e sulle conseguenze. A rimetterci è stata la complessità generale e i comparti potremmo dire più sandbox: ma è innegabile che rispetto a un Baldur’s Gate, che alla fin fine contempla un unico finale, DAO sia estremamente duttile. Non voglio aggiungere altro, ma penso che il gioco le offrirà occasioni per farsi perdonare.
Quanto alle espansioni, Awakening può valere la pena, essendo comunque una storia sufficientemente sviluppata da stare in piedi. Le altre sono semplici divertissement a cui si può tranquillamente rinunciare, soprattutto se non si ha intenzione di proseguire nella saga.
Ecco ora mi sovviene il prologo di Pillars of Eternity 2 (che spero esca prima o poi per switch perché sul PC mi andava a 2 all’ora e alla fine ho dovuto rinunciarci… Potrei acquistarlo per Xbox One ma preferisco la comodità della console Nintendo) attenzione per chi non l’ha giocato perché è uno spoiler e quindi lo scriverò sotto….
SPOILER!!!
All’inizio della storia il protagonista viene “nuclearizzato” dal Dio Eothas che si “risveglia” nella mega statua che era sotterrata nel giardino del vostro castello e distrugge tutto (così evitiamo di avere possedimenti nel seguito: se uno ha già un castello perché partire in cerca di avventure? Io passerei tutto il giorno a grattarmi la maglia ferrata…).
Diventato spirito viene richiamato da dio della morte (il cui nome ignoro), non prima di aver ripercorso la vita passata in una sorta di riassuntone raccontato utile per chi non si è spassato col primo gioco…. Orbene la proposta del dio è: resuscitare il giocatore affinché divenga una sorta di agente di tutte le divinità restanti per capire le motivazioni e gli scopi di Eothas (che non socializza con gli altri dopo il risveglio perché era stato distrutto) o in alternativa fargli fare fine di tutte le anime cioè finire reincarnato… In questo caso il gioco non costringe affatto il giocatore ad accettare la proposta del dio, anche se è necessario rinunciare ripetutamente alla proposta finché il vostro interlocutore non sarà costretto ad accettare la scelta effettuata e vi rincarnerete in un gatto (decisamente una forma di vita superiore) con un finale appositamente pensato per questa eventualità…. Inutile aggiungere che ho apprezzato moltissimo l’idea!!!
Ottimo esempio, Il Più Antico! Non ho ancora cominciato PoE2, ma quello che descrivi è esattamente quello che sarebbe servito in DAO durante il rito di iniziazione dei Grey Warden. Ci sono parecchie fattispecie simili ottimamente realizzate in Disco Elysium, di cui a breve pubblicherò la recensione: il personaggio è libero di fare le scelte più assurde, e quelle più patentemente tali portano a un appositamente pensato game over. Fantastico!
Ecco questo non lo giocherò finché non uscirà una versione localizzata… Sarò pigro ma oramai mi mette pensiero giocarmi un RPG “importante” in lingua inglese…
Non credo sia all’orizzonte una versione italiana, ma ammetto di non aver mai fatto indagini a riguardo. Non è un gioco molto lungo, ma la quantità e la qualità del testo è notevole, quindi se non padroneggi l’inglese in effetti non è il caso.
Non so dirti il mio livello di inglese…. Parlato sicuramente Z, letto l’ho praticamente imparato da solo con i manuali di Ad&d e con i giochi di ruolo sul computer (aridaje)… Credo che riuscirei a giocarlo alla fine ma, essendomi abituato bene negli anni ad avere la localizzazione, mi spaventa l’idea di tradurmi righe e righe di testo…. Comunque credo che tu abbia ragione sulla traduzione mi sa che non è in programma (era uscito un sondaggio poco tempo fa ma c’hanno fregato i turchi alla grande…). Quindi aspetto la tua recensione per decidere (tanto ho tempo sto giocando contemporaneamente Dragon Age inquisition, outer worlds e Kingdom of Amalur ma le ferie finiranno lunedì…) facci na spoilerata dai: è il capolavoro che tutti dicono??
Sì, è il capolavoro che tutti dicono.
Quanto all’inglese, io penso che se si conosce un minimo la lingua (e mi pare il tuo caso) sia sempre meglio giocare in inglese. Le traduzioni fanno sempre perdere tantissimo a livello di dettaglio e di immersione, senza contare che spesso sono proprio fatte molto male, da persone che chiaramente non hanno dimestichezza con l’ambiente.
(En passant, chi ha meno di 35 anni e non sa l’inglese dovrebbe davvero cominciare a studiarlo).
E allora aspetto la tua recensione e lo tengo d’occhio appena esce su Switch
L’esempio portato da Haysen sottolinea purtroppo una magagna riscontrabile anche nelle migliori sceneggiature RPG, e talvolta risulta davvero fastidiosa, soprattutto se te ne capita una all’inizio del gioco.
In realtà, i casi che si potrebbero citare in merito si sprecano. Pensiamo all’inizio di Baldur’s Gate.
(segue spoiler)
Il nostro padre adottivo Gorion non ci rivela nulla di ciò she sta succedendo e ci costringe a seguirlo fuori dalla fortezza Candlekeep in una situazione molto più pericolosa (d’accordo, ci sono stati due tentativi di ammazzarci, ma almeno tra le mura ci sono guardie e maghi amici che possono proteggerci meglio del solo Gorion in mezzo alla foresta!), decisione stupida alla quale non possiamo opporci, sennò il gioco non prosegue.
Tuttavia il bello deve ancora venire. Gorion finisce subito ammazzato, e noi ci ritroviamo fuori dalle mura in pericolo di vita. Ovviamente la prima e più ovvia mossa da fare è ritornare a Candlekeep, piuttosto che vagare di notte nella foresta con alle calcagna gente che ci vuole morti. Raggiungiamo la guardia all’ingresso e la preghiamo di farci entrare, e qui avviene il trionfo dell’assurdo. Sì, perchè la guardia, che ci conosce da una vita e sa che abbiamo vissuto nella fortezza fino a quel momento, replica che gli studiosi all’interno non vogliono essere disturbati, e senza Gorion non può lasciarci entrare!!!
Ovviamente non possiamo replicare che Gorion è morto e noi stiamo fuggendo da assassini spietati, che sicuramente i maghi di Candlekeep avrebbero sicuramente abbastanza a cuore la vita del pupillo del loro amico Gorion da poter mettere da parte per un attimo i loro studi, e non possiamo nemmeno dare un calcio nelle palle a quell’idiota di guardia e rientrare senza dover sopportare altre idiozie!
Questo è un altro esempio, e stiamo parlando di una sceneggiatura di Black Isle, dove ancora una volta all’inizio di un gioco da 80-100 ore, una situazione assurda ti taglia le gambe e il “suspension disbelief” va subito a ramengo. Solo con un notevole sforzo di fantasia (in pratica, inventandosi una trama alternativa verosimile del tipo “è un complotto e nella fortezza ci sono nemici che hanno tramato per non lasciarci rientrare”) si riesce a proseguire nell’avventura, ma intanto ci si continua a chiedere come sia possibile che uno sceneggiatore se ne sia uscito con una tale idiozia, e altri l’abbiano giudicata degna di essere lasciata nello script finale.
Ma guarda, il gioco è fedele all’ambientazione (se non ricordo male): a candlekeep si entra solo se si dona un tomo di grande valore… Ovviamente si sarebbe potuto pensare una qualche sorta di check sul carisma per permettere al pg di rientrare (con tutte le conseguenze del caso…). La cosa che secondo me è più assurda dell’episodio è che la guardia ai cancelli è indistruttibile: anche se si torna con il party al completo e “pompati” al massimo non è possibile sconfiggere il guardiano…. Altro che Sarevok, Irenicus o Demogorgon! Na roba del genere comunque la ricordo anche sul primo Fallout
Attenzione spoiler
Quando alla fine il supervisore vi vuole cacciare dal vault potete rifiutarvi di andarvene e partirà un combattimento dal quale non si può uscire vincitori! ricordo che il mio personaggio iperpompato, nonostante infliggesse centinaia e centinaia di danni (sufficienti x uccidere qualsiasi altra cosa) non poteva spuntarla in alcun modo!
Tuttavia… c’è un modo per far fuori l’infame supervisore : se si possiede il trait Bloody Mess, quando l’ingrato bastardo termina il dialogo e si volta per rientrare nel vault, il protagonista sfodera automaticamente l’arma e con una raffica lo apre in due con tanto di budella fuori, dando al giocatore un immensa soddisfazione.
In effetti ammetto che anche io nella mia prima partita a Baldur’s Gate dopo la morte di Gorion provai a tornare a Candlekeep, nonostante il ‘narratore’ suggerisse di non farlo. La faccenda doveva senz’altro essere gestita meglio. Alla fine non ci vuole molto a indirizzare l’utente senza farlo sembrare una forzatura, basta un po’ di fantasia. Però ammetto che non mi ha dato fastidio tanto quanto non potermi dissociare dal rituale di iniziazione dei Grey Warden in DAO 🙂