Divinity: Original Sin II

Il quarto capitolo della saga Divinity di Larian, secondo della sotto-saga Original Sin, è un gioco straordinario: denso, profondo, ricco, sfaccettato. Ma ha anche qualche non trascurabile criticità. Vediamo meglio di cosa si tratta.

[articolo originariamente pubblicato il 17 maggio 2018]

1. Prospettiva storica 
La saga Divinity della casa di sviluppo belga Larian ha una storia lunga, iniziata nel lontano 2002 con la pubblicazione di Divine Divinity (doveva in realtà intitolarsi Divinity: Sword of Lies), apprezzato GdR classico a visuale isometrica con combattimenti in tempo reale ‘alla Diablo‘, tanto che molti critici lo scambiarono, erroneamente, per un clone del capolavoro Blizzard. Dopo un mediocre spin-off intitolato Beyond Divinity, la saga è proseguita nel 2009 con Divinity II: Ego Draconis, titolo assai diverso dal precedente, con visuale in terza persona e componente action ancora più marcata; pur essendo un prodotto secondo noi assai godibile, Larian l’ha in seguito un po’ disconosciuto, affermando che è probabilmente il loro gioco peggiore. Dopo un altro spin-off intitolato Divinity Dragon Commander, il vero passo in avanti a livello sia di critica sia di pubblico avviene con il capitolo successivo, Divinity Original Sin, pubblicato nel 2014 grazie anche al finanziamento raccolto tramite la piattaforma di crowdfunding Kickstarter. La visuale torna a essere isometrica e il combattimento diventa a turni: nonostante queste premesse, apparentemente vicine a una certa visione old school e poco attraenti per il mercato di massa, il gioco ha un enorme successo, segno che il pubblico considerato “di nicchia” forse tanto di nicchia non è. Alla fine del 2017 è uscito il secondo capitolo di Original Sin, anch’esso sostenuto da una campagna Kickstarter a cui ha arriso un successo ancora maggiore di quella precedente.
Divinity: Original Sin II è un gioco che sembra mettere d’accordo tutti: la presentazione grafica e sonora è di prim’ordine, i meccanismi della giocabilità sono classici e immediatamente riconoscibili dagli appassionati, la storia è avvincente e narrata con maestria (a differenza che nel primo Original Sin, che aveva forse nella componente narrativa il suo punto debole). Eppure, secondo noi manca ancora un passo per arrivare al capolavoro indiscusso. O per meglio dire: ad allontanare l’ultima fatica di Larian dall’agognato bollino dorato sono alcune scelte di design francamente incomprensibili, che pregiudicano inspiegabilmente diversi meccanismi, alcuni dei quali peraltro erano semplicemente perfetti nel capitolo precedente. Seguiteci per capire meglio cosa intendiamo.

2. Source sourcerers
Protagonista di Original Sin II è ancora, in un certo senso, l’energia magica che permea il mondo fantasy di Rivellon, croce e delizia dei suoi abitanti, la cosiddetta Source, già spunto tematico alla base di quasi tutti i giochi precedenti della serie. Se nel primo Original Sin i due protagonisti erano due source-hunters, ossia cercatori di sourcerer colpevoli di abusare del proprio potere magico, in questo nuovo capitolo l’unico protagonista si trova dall’altra parte della barricata: il nostro alter ego è un povero sourcerer che si trova, all’inizio del gioco, a languire all’interno di una nave-prigione diretta verso l’isoletta di Fort Joy, dove il cosiddetto Divine Order tiene in isolamento i più pericolosi sourcerer, con l’obiettivo ufficiale di ‘ammansirne’ il potere magico.
Il Divine Order è la fazione un po’ religiosa e un po’ soldatesca fondata dal Divine, ossia Lucian, il protagonista del primo gioco della saga, Divine Divinity. La morte di Lucian e l’apparente indebolimento dei Seven Divines, le divinità di Rivellon, fa sì che periodicamente il Void, la dimensione opposta a quella materiale, faccia breccia all’interno di quest’ultima, facendo comparire i temibili voidwoken, creature mostruose cariche di source. Dato che l’apparizione di queste bestiacce sembra accordarsi all’uso incontrollato di source, i sourcerer sono additati dalle autorità come i responsabili delle distruzioni causate dai voidwoken: e se il Divine Order è in teoria impegnato a contenere il dispiegamento di energia magica per evitare il proliferare dei voidwoken, in realtà i suoi membri sono intenti a togliere dai sourcerer ogni traccia di energia, magica e non, trasformandoli in creature non-senzienti. Primo obiettivo del malcapitato protagonista è dunque evitare un destino siffatto e magari anche fuggire da Fort Joy per poter agire in piena libertà.
Già dalle primissime battute, peraltro, il nostro alter ego capisce che il destino ha in serbo per lui qualcosa che va ben al di là di una rocambolesca fuga da una prigione a cielo aperto. La nave che lo trasporta verso Fort Joy affonda dopo essere stata attaccata da un mostro marino: il protagonista, però, viene misteriosamente tratto in salvo da una voce che lo apostrofa con l’appellativo Godwoken. Si verrà presto a scoprire che questo è il termine con cui vengono chiamati coloro che sono prescelti dai Seven Divines per ‘ascendere’ e prendere il posto del defunto Damian. La divinità collegata alla razza o alla classe del nostro alter ego, cioè, l’ha scelto come suo ‘candidato’ a prendere il posto che fu di Lucian, così da ripristinare la barriera tra il mondo sensibile e il Void e ristabilire una volta per tutte l’equilibrio tra i piani dell’esistenza. La trama del gioco dopo la fuga da Fort Joy si sviluppa dunque attorno a questo obiettivo finale: ottenere il controllo totale della nostra source così da usarla per ‘ascendere’ e diventare il nuovo Divine, cercando nel frattempo di dribblare le macchinazioni messe in atto dalla nemesi dei Godwoken, ossia Dallis, il luogotenente di Alexander, sedicente figlio di Lucian e capo del Divine Order.
Abbiamo usato la parola Godwoken al plurale perché il nostro alter ego non è l’unico ad avere questo titolo e, di conseguenza, ad avere la necessità di ‘ascendere’: tutti i personaggi predefiniti sono Godwoken. Questo porta a una situazione interessante e originale: se il giocatore sceglie, come dovrebbe, di costruire il suo party usando solo i personaggi predisposti dagli sviluppatori, si troverà a dover gestire un gruppo di avventurieri costituito da compagni che, come meglio spiegheremo più avanti, sono anche rivali, dato che solo uno tra loro potrà davvero ‘ascendere’.
Un elemento degno di menzione è che la Source è presente ‘concretamente’ nel gioco: i protagonisti potranno ‘assorbirla’ in differenti modi e in diverse quantità, ma mano che la loro abilità nel maneggiarla aumenterà di livello. Gli incantesimi e le abilità più potenti richiedono source per essere utilizzati: è un’ottima trovata per impedire al giocatore di adoperarli troppo spesso, ed è perfettamente coerente con quanto la trama racconta.

3. Le origini
Nella fase di creazione del suo personaggio, il giocatore dovrà fare una scelta importante: dovrà decidere se creare il suo alter ego da zero o se utilizzare come personaggio principale una delle sei origini offerte dal gioco. Con questo termine vengono chiamati i sei Godwoken protagonisti dell’avventura, ciascuno facente riferimento a una differente divinità, con una eccezione: ne parliamo più nel dettaglio nell’apposito excursus.
L’idea è originale e interessante: pur offrendo al giocatore la classica possibilità di creare un personaggio da zero scegliendone razza, classe e caratteristiche (e ogni razza vede anche la possibilità di scegliere la versione non-morta della medesima), all’utente viene anche data l’opportunità di mettersi nei panni di un personaggio già predisposto, con una sua personalità, una sua storia e un suo obiettivo, un po’ come avviene nella saga di The Witcher. E va detto che i personaggi collegati alle origini sono talmente interessanti e ben configurati da rappresentare senza dubbio la scelta migliore per chi voglia godere appieno dei contenuti del gioco: anzi, spiace che il party possa contenere al massimo quattro personaggi e che quindi due protagonisti siano destinati a rimanere fuori (uno dei primi mod creati dalla comunità è stato proprio quello che ha permesso di estendere il party a sei personaggi per ammettere tutti a bordo).
È importante sottolineare che, anche se ciascun protagonista ha nell’ambito della gestione del party un suo ruolo ideale e quindi una sua classe d’elezione, il giocatore può modificarne la specializzazione: quindi un qualche tipo di personalizzazione è comunque presente. L’identità di ciascun personaggio predefinito emerge potentemente, più che nella gestione dei combattimenti, nei dialoghi, dove ciascuno esibisce una sua personalità, che il giocatore è in qualche modo spinto ad assecondare, senza che questo limiti più di tanto, peraltro, le possibilità di scelta. Dopo ogni evento significativo, il party si troverà a confrontarsi su quanto accaduto: i comprimari reagiranno sulla base delle scelte fatte e del loro rapporto con il protagonista, ma quest’ultimo avrà a disposizione battute che saranno diverse ma tutte in qualche modo collegate con la sua personalità e il suo background. Da questa particolare predisposizione prende vita un gioco incredibilmente profondo e sfaccettato, che il completista dovrà affrontare ben sei volte per godere appieno di tutti i contenuti, visti in ciascuna occasione da una prospettiva unica ma non per questo costretta entro binari che sembrino troppo stretti.
Il culmine della complessità a cui possono arrivare gli intrecci di Original Sin II è rappresentato dal fatto che come già detto i sei protagonisti sono anche sei rivali. Il Divine può essere solamente uno, e la divinità che nelle prime ore di gioco funge da guida e pigmalione per il nostro alter ego non fa che sottolineare il fatto che dobbiamo in qualche modo cercare di ‘bloccare’ le aspirazioni dei nostri compagni di viaggio. La rivalità latente dà spessore all’avventura e conferisce a tante situazioni un sapore sottilmente ambiguo, che controbilancia mirabilmente, dal punto di vista della salienza narrativa, il tipico approccio divertito e disimpegnato di Larian, che come vedremo meglio in seguito rimane comunque presente e anzi messo in opera con straordinaria serranza.

Excursus: i compagni di viaggio
attenzione: lievi spoiler!Come già raccontiamo nel corpo principale, Original Sin II dà una interpretazione originale del concetto di party. Anzitutto, il giocatore è invitato a mettersi nei panni di uno dei personaggi arruolabili, che diventerà a quel punto il protagonista dell’avventura; in secondo luogo, tutti i potenziali compagni di viaggio condividono la natura di Godwoken, e quindi sono di fatto, oltre che colleghi, anche rivali. Qui li passeremo in rassegna in ordine alfabetico.

Beast è un valoroso nano che di default veste la classe di battlemage. Esiliato dal suo regno perché ribellatosi alle trame della regina Justinia, ha una quest personale che ruota proprio attorno alla necessità di fermare i progetti della sovrana, potenzialmente disastrosi non solo per i nani ma per tutta Rivellon. La voce di Beast è dell’attore scozzese Alec Newman.

Fane è un mago non morto, più precisamente un membro dell’estinta razza nota come Eternals, un tempo dominatrice del mondo e attualmente da tutti o quasi dimenticata. La sua quest personale, intrecciata a doppio filo con la trama principale, è incentrata sulla volontà di scoprire le motivazioni dietro la scomparsa degli Eternals. Caratteristica più importante di Fane è forse la sua capacità, veicolata da un particolare manufatto chiamato Mask of Shapeshifting, di prendere le forme di qualunque altra razza, accedendo anche alle relative abilità. La voce di Fane è del doppiatore americano Christopher Bonwell.

Ifan Ben-Medz è un umano di classe wayfarer, specializzato nel combattimento furtivo e a distanza. Già membro del Divine Order, è al momento parte del gruppo di mercenari noto come Lone Wolves. La sua missione personale ruota proprio attorno alle azioni di questo gruppo di avventurieri. La voce di Ifan è dell’attore inglese Chris Finney.

Lohse un’umana incantatrice, ma la sua identità è tratteggiata soprattutto dal suo essere abile nelle abilità del bardo, ossia la musica e il canto (in qualche occasione potremo anche ascoltarla nelle sue performance). La missione personale di Lohse è assai interessante e urgente: la ragazza è posseduta da un demone che ogni tanto prende il sopravvento su di lei facendole compiere azioni inaspettate. Sconfiggere il demone sarà necessario per Lohse per riprendere il pieno controllo di sé. La voce di Lohse è dell’attrice inglese Tamaryn Payne.

Sebille è un’elfa specializzata nelle abilità ladresche. Diretta e spietata, è incarnazione perfetta della particolare identità che hanno gli elfi nel nuovo titolo di Larian: creature al contempo algide ed eteree ma anche violente e caratterizzate da ritualità macabre come il cannibalismo. La missione personale di Sebille ruota attorno alle vicende della sua razza, la cui stessa sopravvivenza è messa a rischio dalle macchinazioni di certi gruppi di potere. La voce di Sebille è dell’attrice inglese Alix Wilton Regan.

The Red Prince è un lizard di alto lignaggio, specializzato nelle arti del combattimento in corpo a corpo. Come il nome suggerisce, appartiene alla famiglia regale a capo di tutta la sua razza: verrà dunque spesso riconosciuto dai personaggi non giocanti, con tutte le conseguenze positive o negative del caso. La sua missione personale ruota attorno alla volontà di tornare a reclamare il suo potere di sangue, unito alla romantica necessità di ritrovare la sua Red Princess. La voce del Red Prince è dell’attore inglese Harry Hadden-Paton.

4. Lo sviluppo del personaggio
Divinity Original Sin II ha un sistema di sviluppo del personaggio cosiddetto classless: anche se nominalmente esistono delle ‘classi’, in realtà il nostro alter ego è liberamente sviluppabile investendo punti abilità e punti caratteristica in qualunque direzione. Il protagonista e i suoi comprimari sono definiti anzitutto tramite sei caratteristiche di base, che sono forza, destrezza, intelligenza, costituzione, memoria e ingegno. Forza, destrezza e intelligenza aumentano il danno con le rispettive tipologie di arma (in corpo a corpo, a distanza e magiche); la costituzione aumenta i punti ferita; la memoria, non presente nel capitolo precedente, aumenta la capacità di memorizzazione delle abilità, come spiegheremo meglio più avanti; l’ingegno determina il valore di iniziativa e la possibilità di effettuare colpi critici. Le caratteristiche entrano in gioco molto spesso anche durante i dialoghi, in modo coerente con il proprio ruolo: ma la percentuale di successo nelle persuasioni basate sulle caratteristiche dipende anzitutto e in prima battuta dal perk chiamato, appunto, Persuasione. All’inizio della partita il personaggio parte con un valore di 10 in ciascuna caratteristica e 3 ulteriori punti da distribuire; a ciascuna crescita di livello, il giocatore ottiene 2 nuovi punti caratteristica. Il valore massimo per ciascuna caratteristica è 40, ma si può andare oltre grazie all’equipaggiamento o agli effetti magici.
Alle caratteristiche si affiancano le abilità passive, divise in militari e civili. Le abilità militari principali sono quelle legate a ciascuna specializzazione: per esempio l’abilità Warfare permette lo sblocco delle abilità attive legate al combattimento in corpo a corpo. Le abilità magiche sono ancora divise in differenti scuole legate agli elementi (Aria, Acqua, Terra, Fuoco) ed esistono linee di specializzazione anche più particolari e sui generis, come la Necromanzia, l’Evocazione o la Trasformazione. Ciascuna abilità attiva è collegata a un determinato livello nella relativa specializzazione: per esempio, solo chi ha un livello di Pyrokinetic (magia del fuoco) pari a 2 può lanciare la temibile palla di fuoco. Altre abilità belliche sono collegate alla specializzazione nelle differenti tipologie di arma: ma in questo caso l’effetto è puramente passivo e non direttamente collegato alle abilità attive. Le abilità civili sono collegate ad ambiti che vanno al di fuori dello scontro diretto: tra esse ci sono per esempio la Persuasione, lo Scassinamento, il Commercio, ma anche capacità pseudo-arcane come la Telecinesi o il Lucky Charm, che determina la percentuale di trovare tesori casuali durante le esplorazioni. Il giocatore ottiene 1 punto abilità militare a ogni passaggio di livello, mentre i punti per le abilità civili si ottengono solamente ogni 4 livelli.
Infine, a determinare la natura del nostro personaggio contribuiscono in maniera determinante i cosiddetti talent, tratti che possono cambiare anche considerevolmente l’approccio a vari comparti del gioco. I talenti possono essere ottenuti solo in determinati passaggi di livello, e in ogni caso sarà difficile averne più di cinque o sei verso la fine dell’avventura. Tra i talenti che meritano menzione vi sono il quasi indispensabile Pet pal, che consente di parlare con gli animali, il Lone Wolf, che assegna drastici bonus alle caratteristiche e alle abilità agli avventurieri che viaggiano da soli o con un unico compagno, e l’Opportunist, che consente di sferrare potenti attacchi di opportunità ai nemici che tentano di allontanarsi dal personaggio durante uno scontro in corpo a corpo.

5. Sistema di controllo
In Divinity Original Sin II il giocatore controlla il proprio personaggio secondo una tradizionale visuale isometrica dall’alto, zoomabile e ruotabile a piacere. Il clic del mouse sul terreno permette di spostare il nostro alter ego attraverso le varie ambientazioni, che come da consuetudine per la serie strabordano di elementi raccoglibili e/o interattivi, tanto da richiedere una certa attenzione onde non fare danni involontari (per esempio rubando oggetti di proprietà altrui). Le esplorazioni, peraltro, risultano laboriose non solo a causa di questa fattispecie ma anche per le modalità stesse con cui si sviluppano le ambientazioni, ricchissime di zone nascoste o difficilmente accessibili, tanto che uno dei primi aspetti che il nostro party si troverà a dover mettere a punto è un efficace sistema di teletrasporto per tutti i suoi membri, tramite abilità, incantesimi o anche tramite le ormai classiche piramidi, oggetti che attivano il trasposto a distanza e che sono presenti nella serie fin dai suoi esordi.
L’avventura è divisa in capitoli, ciascuno dei quali si sviluppa in una determinata zona, che prende le forme di una enorme ambientazione: quest’ultima è interamente caricata all’inizio della sessione di gioco, con l’unica eccezione rappresentata dai sotterranei e dai piani alti degli edifici, caricati separatamente. Gli interni al piano terra invece sono accessibili senza alcun caricamento: il motore grafico fa temporaneamente ‘sparire’ ogni elemento scenico che blocchi la visuale sul party, anche se va detto che talvolta le ambientazioni sono talmente dense e complesse da rendere il movimento e l’avvistamento del party più complessi di quanto dovrebbero essere. Il giocatore può personalizzare il comportamento della telecamera e decidere se poter muovere la visuale liberamente o se centrarla sul membro attivo del party: anche in questo caso, peraltro, va detto che spesso la gestione del punto di vista è fastidiosamente frustrante, soprattutto perché molte ambientazioni hanno elementi di interesse su tutti i lati, con conseguente necessità di girare continuamente la telecamera.

6. La struttura del mondo
In Original Sin II, una buona parte del tempo di gioco è trascorsa dialogando e combattendo, ma di questi due comparti ci occuperemo meglio in seguito. Qui vorremmo invece concentrarci sulle modalità di costruzione del mondo, un ambito in cui il gioco in oggetto mostra una sua identità unica e forte, non sempre per il meglio.
Pur essendo fin dalle prime battute un gioco story-driven, l’ultimo lavoro di Larian sembra offrire anche una componente di libera esplorazione, dato che le ambientazioni sono percorribili liberamente in ogni direzione e sono, come dicevamo, ricche di zone secondarie opzionali, potenzialmente ignorabili dal giocatore che voglia andare dritto al sodo. Ciascuna location rappresenta una precisa entità geografica e urbanistica: per esempio un’isola, oppure una città e i suoi dintorni. Il problema è che il modo in cui questi ‘pezzi’ di Rivellon sono veicolati tramite il gioco è squisitamente astratto: solo che il gioco stesso tenta continuamente di convincerci che non è così, per esempio inserendo come elemento centrale dell’esperienza ludica momenti simulativi, quali la possibilità di sedersi o di dormire, o anche semplicemente di spostarsi in tempo reale dal centro città a un avamposto posizionato sul suo liminare. Questo dà vita a una situazione paradossale, in cui il realismo, a cui contribuisce anche il dettagliato sistema grafico, fa a pugni con una struttura intrinsecamente quest-driven e dunque per forza di cose irrealistica e astratta.
Spieghiamo meglio cosa intendiamo. Ciascuna location di Original Sin II va immaginata come una specie di puzzle nel quale sono combinate tutte le destinazioni delle varie quest, più qualche piccola destinazione extra, dove c’è solo qualche tesoro opzionale. Si può dire che di fatto non esistono zone ‘di passaggio’: possiamo stare certi che ciascun luogo, anche una insignificante casetta in mezzo al niente, è collegato a qualche momento narrativo. E se il momento narrativo lo richiede, quell’elemento dell’ambientazione sarà configurato come necessario, senza nessuna preoccupazione per la coerenza dell’insieme. Non è per nulla strano, nell’ultimo lavoro di Larian, imbattersi in una rovina dove è in corso un confronto tra magister e sourcerer, mentre nello spiazzo letteralmente di fianco alla rovina c’è l’avatar demoniaco di una strega maledetta circondata dai suoi servitori, e mentre dietro alla rovina c’è un piccolo bosco grande massimo una decina di metri quadrati al centro del quale c’è un non morto che si interroga sul senso delle cose (e pronto, manco a dirlo, a darci una quest). Le creature che popolano ciascuna tessera del puzzle hanno un livello, che il giocatore può vedere semplicemente passando su di esse il puntatore del mouse. Essendo il mondo di gioco completamente statico, sarà quasi istintivo dirigersi verso la tessera dove ci sono creature di livello inferiore, per passare poi alle tessere dove ci sono creature di livello superiore. Ma non ci abbandonerà mai la sensazione, spiacevolissima in un titolo che fa finalmente della tensione narrativa un suo punto di forza, di essere in un mondo parallelo semplicemente assurdo, organizzato tutto attorno all’avventura che stiamo vivendo, come se fosse la scenografia della nostra personale ordalia, senza alcuna vita propria al di fuori delle vicende che toccano il protagonista in quel determinato momento.
Tutto questo è, a pensarci bene, sommamente istruttivo. Perché ci fa capire che non basta mettere uno di fianco all’altro gli elementi di una ambientazione per creare un mondo. Un mondo è anzitutto una entità credibile in sé, nella sua interezza. È ovvio che chi crea un mondo virtuale che faccia da sfondo a un videogioco deve per forza di cose scendere a compromessi: ma a guidare la sua ispirazione dev’essere in prima istanza la credibilità di quel che costruisce. Se vuoi dar vita a una ambientazione ampia e liberamente esplorabile, il passaggio dal punto A al punto B dev’essere plausibile, altrimenti il castello crolla miseramente. Plausibile non vuol dire realistica, sia chiaro: che in Oblivion si passi in pochi minuti da un clima temperato a un clima siberiano, per esempio, è assolutamente improbabile dal punto di vista del realismo; eppure nel gioco questo passaggio è sufficientemente dissimulato e non dà fastidio più di tanto. Ecco, potremmo azzardarci a dire che ciascuna ambientazione di Original Sin II dovrebbe avere la stessa grandezza del mondo di Oblivion per sperare di essere almeno un minimo plausibile: così com’è, il Rivellon disegnato dall’ultimo lavoro di Larian è una inaccettabile accozzaglia di location giustapposte senza criterio alcuno, come se anziché di fronte a un sedicente mondo virtuale fossimo di fronte al freddo tabellone di un gioco da tavolo. La soluzione ideale per risolvere il problema, a dire il vero, sarebbe stata secondo noi un’altra: Original Sin II avrebbe dovuto implementare una mappa del mondo in stile Baldur’s Gate II e ciascuna location avrebbe dovuto essere caricata separatamente. In questo modo la coerenza del mondo è mantenuta, perché la rinuncia esplicita a rappresentarne le parti nella loro interezza ne sorregge l’identità a livello di pura astrazione. Siamo creature immaginifiche, e non c’è niente di male nell’usare il potere dell’immaginazione per evocare mondi impossibili da replicare nei dettagli.

Excursus: la bellezza di essere morti
Uno degli aspetti più interessanti della creazione del personaggio in Divinity Original Sin II è il fatto che ciascuna delle razze disponibili (umano, nano, elfo, lucertola) è disponibile in due versioni: la versione per così dire ‘normale’ e la versione non morta. Non si tratta solo di uno sfizio estetico: giocare con un undead può cambiare profondamente le strategie e l’approccio alla storia. Anzitutto, molti PnG saranno spaventati dal nostro alter ego, quindi per poter parlare con tutti in tranquillità sarà necessario ricorrere a traverstimenti. In secondo luogo, gli incantesimi che danneggiano la salute tramite effetti di necromanzia e di veleno cureranno il personaggio anziché ferirlo; e vale anche il ragionamento opposto: gli incantesimi di cura feriscono i personaggi non morti anziché curarli. Questo ovviamente ha conseguenze drastiche in termini di giocabilità: un gruppo ‘misto’ di ‘vivi’ e di non morti deve ricorrere a metodi diversi per curare i vari componenti. L’immunità al veleno, poi, apre la porta a tutta una serie di strategie interessanti: un guerriero non morto può tranquillamente attraversare nubi e superfici velenose per raggiungere il nemico, risultato perfetto per essere usato in tandem con un mago specializzato in quelle scuole.
Ma l’aspetto più interessante a questo riguardo è soprattutto un altro. Un elemento centrale nella trama del gioco è la cosiddetta deathfog, una letale nube tossica in grado di uccidere all’istante chiunque entri con essa in contatto. Alcune zone del gioco sono interamente circondate dalla nube, risultando assai difficili (se non impossibili) da esplorare per un gruppo ‘vivo’. D’altro canto, un non morto può tranquillamente andare in avanscoperta, lasciando magari indietro il resto del party. E se il nostro gruppo è composto interamente da non morti, possiamo ignorare completamente la deathfog: i programmatori sono sufficientemente accorti da aver previsto anche questa possibilità, che sbloccherà dialoghi particolari.
Come abbiamo già raccontato, una delle origini è incentrata proprio su un personaggio non morto: Fane. Val la pena sottolineare che questo personaggio si deve alla prestigiosa penna di Chris Avellone, un autore molto amato dagli appassionati (colonna portante di Black Isle ai tempi di Planescape: Torment e Icewind Dale, poi membro di Obsidian, ora essenzialmente battitore libero). Nella recensione di Pillars of Eternity, altro gioco che vanta due personaggi scritti da Avellone, ci siamo lamentati del fatto che è evidentissimo che i companion sono frutto di penne differenti: va detto che questa sensazione è del tutto assente in Original Sin II, segno che un unico ed abilissimo editor è intervenuto sui testi rendendoli coerenti e omogenei tra loro.

7. Il sistema di combattimento
Immaginiamo che questa affermazione possa sorprendere, ma uno degli elementi più controversi di Original Sin II è il sistema di combattimento. Lo sconcerto può ben derivare dal fatto che il capitolo precedente era stato invece assai lodato proprio per quanto riguardava questo comparto, considerato, non a torto, il fiore all’occhiello del titolo. Ma Larian evidentemente non era d’accordo con le lodi e ha deciso di stravolgere completamente il sistema, probabilmente nel tentativo di migliorarlo ancora. Spiace dire che il risultato desta più di qualche perplessità.
Ma andiamo con ordine. Il combattimento resta rigorosamente a turni e gestito con il sistema dei punti azione: ciascun gesto, dal colpo di un’arma a uno spostamento al lancio di un incantesimo, richiede un certo numero di punti azione; quelli non spesi in un certo turno possono, entro un certo limite, essere trasferiti al turno successivo. È rimasto inalterato il peso enorme dato, in fase di combattimento, all’interazione con gli elementi dello scenario e in genere alla creazione e combinazione di ‘superfici’ contaminate da effetti quali il fuoco, il veleno, l’acqua, il ghiaccio. Ancora una volta una tipica sessione di combattimento in Original Sin II dà l’impressione di essere una sorta di piccolo esperimento chimico, durante il quale a determinare vincitori e vinti è anzitutto la capacità di combinare gli effetti elementali di incantesimi e abilità.
A essere completamente cambiati rispetto al capitolo precedente sono principalmente due aspetti: la gestione delle armature e la gestione dell’ordine di turno. In Original Sin II, ciascun personaggio ha un valore di armatura ‘fisica’ e un valore di armatura ‘magica’, dati essenzialmente dall’equipaggiamento: questi valori sono come ‘sovrapposti’ ai punti ferita e devono poter essere ‘consumati’ prima di poter infliggere ferite vere e proprie, un po’ come succede in Mass Effect. Il problema è che queste armature annullano completamente, finché sono attive anche solo in minima parte, gli effetti degli incantesimi e delle abilità. Ciascun incantesimo e ciascuna abilità, infatti, è collegato a una di esse: se vorremo davvero veder ‘funzionare’ quell’incantesimo o quella abilità, dovremo prima azzerare completamente la relativa armatura. La conseguenza è facilmente immaginabile: durante tutta la prima parte di ogni combattimento, a contare sono solo ed esclusivamente i danni, fisici o magici, che i nostri personaggi riescono a infliggere. Tutti gli effetti che vadano oltre il puro e semplice danno entrano in gioco solo a scontro avanzatissimo, quando la sorte del confronto è spesso già decisa. Probabilmente con questa modifica Larian ha voluto porre un limite allo strapotere che nel primo capitolo avevano i maghi, capaci di mettere fuori gioco i nemici in breve tempo con abilità di crowd control messe in campo fin dai primi turni: paradossalmente, però, l’effetto ottenuto è l’opposto, nel senso che ora i maghi sono quasi del tutto impotenti per gran parte dello scontro, demandato alla pura e semplice forza bruta dei guerrieri e soprattutto degli arcieri, capaci di infliggere danni fin da subito senza doversi riposizionare.
Anche la gestione dell’ordine di turno, come dicevamo, ha subito modifiche sostanziali: ma in questo caso pensiamo di poter dire che si tratta di modifiche benvenute. Nel primo Original Sin, il solo valore di iniziativa determinava l’ordine di turno: alzando adeguatamente quel valore, dunque, si poteva avere certezza di poter agire con tutti i personaggi del party prima dei nemici. Il risultato era che un party con iniziativa altissima riusciva a mettere fuori gioco gli avversari prima ancora che questi potessero cominciare lo scontro. Ora l’iniziativa determina l’ordine di turno solo nell’ambito del nostro party: i vari membri degli schieramenti in lotta agiscono sempre alternativamente, prima uno dei ‘nostri’ e poi uno dei ‘loro’, o viceversa. Il valore di iniziativa, dunque, non ha più importanza determinante, e anzi può essere sostanzialmente ignorato.

8. Obsolescenza programmata 
In Original Sin II il giocatore spenderà una quantità di tempo notevole non solo combattendo, esplorando e dialogando, ma anche ‘aggiustando’ l’equipaggiamento dei personaggi giocanti. Si dirà: succede in ogni GdR che si rispetti. Certamente, ma non con la frequenza e i ritmi che si sperimentano nell’ultimo titolo di Larian. Gli autori del gioco, infatti, hanno messo a punto una gestione degli oggetti davvero singolare, incentrata su un ‘livellamento’ costante e ossessivo, tale da rendere obsoleto l’equipaggiamento solo poche ore dopo il suo ritrovamento o la sua creazione.
Spieghiamo meglio come funziona questo aspetto, non a torto fortemente criticato dalla comunità di appassionati. Ciascun oggetto ha un livello, proprio come ciascuna creatura affrontata: ma mentre le creature popolano il mondo di gioco secondo criteri ‘statici’, gli oggetti rinvenuti, le cui caratteristiche sono peraltro quasi sempre determinate casualmente, sono livellati automaticamente in base al livello del personaggio. Non funziona così con tutti gli oggetti: alcuni hanno un livello predeterminato, in genere accordato col livello della zona in cui possono essere rinvenuti. Il problema è che la differenza tra un oggetto di un determinato livello e un oggetto equivalente anche solo del livello successivo è enorme: non tanto in termini di caratteristiche magiche, quanto proprio in termini di valori di armatura, un elemento che come spiegavamo sopra è decisivo nella risoluzione dei combattimenti.
Proviamo a pensare a cosa questo significa in termini di pura e semplice giocabilità. Il nostro eroe trova un epico oggetto magico, magari dopo una lunga ed estenuante ricerca. Al successivo passaggio di livello, tutti i mercanti del gioco, il cui inventario è anch’esso dinamico, casuale e livellato automaticamente, avranno in vendita oggetti assai più potenti di quell’epico manufatto, descritto dal gioco come leggendario: ci toccherà dunque disfarcene immediatamente, pena l’avere un personaggio dai valori di armatura inadeguati alle sfide da affrontare.
Perché il grado di difficoltà del gioco non permette in alcun modo di baloccarsi con oggetti sfiziosi ma di livello anche solo leggermente inferiore a quello attuale dei personaggi: il risultato è che i nostri eroi diventeranno insulsi manichini su cui ‘appoggiare’ centinaia di oggetti diversi cambiandoli continuamente, con effetti letali anche dal punto di vista puramente estetico, per non parlare di ambiti più seri e importanti quali l’immedesimazione e il ritmo di gioco. Ma è, questo, un problema che riguarda anche e soprattutto l’identità stessa del titolo: Original Sin II prende le forme di un GdR serio e impegnativo per quel che riguarda i meccanismi del dialogo e del combattimento, per diventare poi un hack and slash ipertrofico e tamarro quando si tratta di gestire l’equipaggiamento. I suoi autori dovrebbero decidere una volta per tutte cosa vogliono fare da grandi.

9. Il sistema di dialogo e la qualità della scrittura
Un ambito che ha fatto passi avanti notevolissimi rispetto al capitolo precedente è, in Original Sin II, quello relativo ai dialoghi e più in generale alla scrittura e alla narrazione. È sempre stato, questo, un ambito nel quale l’originale personalità degli autori, caratterizzata da sottile umorismo e arguto citazionismo, emerge con una certa potenza: ma pensiamo di poter dire che Original Sin II è il primo gioco nel quale l’umorismo si combina con una vicenda comunque ponderosa e a suo modo serissima, che non dà l’impressione di essere un puro e semplice canovaccio messo insieme per mere esigenze di giocabilità.
Il dialogo avviene col classico sistema della risposta multipla. Val la pena sottolineare che le conversazioni sono interamente parlate: e non solo per quel che riguarda le battute effettivamente pronunciate dai personaggi, ma anche per quel che riguarda gli inserti di pura e semplice descrizione, declamati da una suadente e appropriata voce narrante. Le risposte selezionate, tuttavia, non sono parlate: d’altro canto, ciascuno dei sei personaggi predefiniti ha mille e più occasioni per sfoggiare la sua voce, che dunque lo caratterizza assai in profondità.
Talvolta le risposte selezionabili non sono davvero risposte quanto piuttosto azioni, spesso collegate a qualche abilità: anche in questo caso, tuttavia, quel che accade è interamente descritto dalla voce narrante, con un mirabile effetto di contiguità e di coesione e senza che il ritmo degli eventi subisca interruzioni o scarti eccessivi. A colpire, del comparto dialogico di Original Sin II, è forse proprio l’eccellente equilibrio tra la quantità di informazioni proposte e le parole utilizzate per proporle: non c’è mai, nell’ultima fatica Larian, la spiacevole sensazione di stare perdendo tempo a leggere passaggi puramente ‘decorativi’ e fini a se stessi, né l’altrettanto spiacevole sensazione che un evento scioccante venga liquidato troppo in fretta. In Original Sin II il medium è più che mai il messaggio.
Può essere utile, per capire meglio cosa si intende, un confronto diretto con quel che accade in quest’ambito in Pillars of Eternity di Obsidian. Il puro e semplice testo presente in Pillars è assai più consistente di quello presente in Original Sin II: ma è utilizzato in maniera così prolissa, incoerente, discontinua e spesso manierista da risultare, alla fine, controproducente nel definire l’identità del titolo. Forse l’esempio più eclatante di quel che intendiamo è proprio il testo non direttamente dialogico, quello che nei dialoghi descrive per esempio l’espressione dell’interlocutore. In Original Sin II queste descrizioni sono asciutte e precise, vengono utilizzate con dovuta parsimonia e per di più sono interamente parlate; in Pillars of Eternity sono usate continuamente, anche in mezzo alle frasi parlate, aggiungono dettagli assolutamente inutili (un sopracciglio più o meno alzato, un colpo di tosse, una grattatina al mento) e non solo non sono parlate (come d’altro canto i dialoghi propriamente detti) ma sono anche scritte in grigio e non in bianco, come se fossero gli sviluppatori stessi a suggerire al giocatore di ignorarle. L’intero comparto testuale di Pillars è, come dicevamo, ipertrofico e mal bilanciato: le informazioni davvero importanti per il giocatore, nonché i momenti fondamentali della trama, sono letteralmente sommersi in un mare di descrizioni, dialoghi completamente fini a se stessi, pezzi di lore seminati in ogni dove, col risultato che alla fine l’utente viene portato a ignorare il testo quasi completamente, perdendosi, quindi, il buono che esso ha da offrire. Original Sin II è, per nostra fortuna, l’esatto opposto: il suo testo è mirabilmente centrato, e per giunta è interamente parlato. A ben pensarci, siamo di fronte a un caso da manuale di eterogenesi dei fini: se si vuole inserire il parlato per ogni testo presente nel gioco, è necessario limitare quest’ultimo al minimo indispensabile. Questo non necessariamente significa sacrificare i contenuti: può anche significare, come l’ultimo lavoro di Larian testimonia, fare in modo che il contenuto complesso venga veicolato con coerenza e precisione.

10. Grafica e sonoro 
Original Sin II usa una versione avanzata del motore di gioco del predecessore, realizzato internamente dagli stessi ragazzi di Larian. È certamente un motore grafico pregevole, che riesce a gestire innumerevoli animazioni ed effetti di ombreggiatura e riflessi assai avanzati, con la controindicazione però di esibire una certa pesantezza nel caricamento e nella gestione degli elementi. Dal punto di vista squisitamente stilistico, Larian riesce nell’intento di dar vita a mondi fantasy che sono al contempo classici ma anche originali, grazie a tocchi anche estetici davvero curiosi e inediti: si vedano, come ottimo esempio di questa fattispecie, gli elfi dell’ultima incarnazione di Rivellon, tratteggiati con declinazioni gotiche e quasi horror, pur rispondendo in pieno ai cliché tipici di questa razza. Il limite più evidente del gioco, dal punto di vista estetico e stilistico, è ricollegabile a quanto si diceva sopra riguardo alla costruzione del mondo: i luoghi di Rivellon che ci si parano davanti sono talmente serrati e ‘concentrati’ da impedire al nostro occhio di osservarli a volo d’uccello, a dispetto del livello di zoom implementato dal motore grafico.
Il comparto sonoro è degno di nota: il tema principale è sviluppato tramite il coro, altra scelta che è allo stesso tempo classica e originale, e le musiche di accompagnamento sono appropriate e sufficientemente varie da non risultare troppo ripetitive. La qualità del doppiaggio è semplicemente eccezionale: non solo per virtù intrinseche, ma anche, come abbiamo ripetutamente sottolineato, in rapporto alla quantità di testo presente e di relativo parlato.

11. Conclusioni 
Oltre a tutti i problemi di cui abbiamo parlato nel corso della recensione, Original Sin II ne ha almeno altri due che val la pena sottolineare. Anzitutto, i livelli di difficoltà sono mal calibrati. Il livello normale è in realtà molto difficile: ogni scontro richiede la massima concentrazione e quasi tutti i combattimenti richiedono più di un tentativo. Il cosiddetto story mode, d’altro canto, è troppo semplice: tranne che per pochi scontri decisivi, nei quali è anch’esso troppo difficile. Abbiamo spiegato più volte come non ci interessi minimamente l’aspetto ‘agonistico’ dei GdR digitali, a differenza di tanti appassionati duri e puri, che scelgono fin da subito il livello di difficoltà più elevato per avere più ‘sfida’ possibile. A noi basta che i combattimenti siano ostici quel tanto che basta da dare un senso anche minimo alle abilità dei personaggi: ma pensiamo che un gioco equilibrato sia un gioco nel quale quasi tutti i combattimenti, tranne quelli cruciali, si possano agevolmente risolvere al primo tentativo con le giuste strategie. Purtroppo a nostro avviso nell’ultimo lavoro di Larian nessun livello di difficoltà permette di raggiungere questo tipo di equilibrio.
L’altro difetto di Original Sin II, ma stiamo parlando di una caratteristica che forse molti vedranno come un pregio, è la durata infinita o quasi: un problema che era presente anche nel capitolo precedente. Per vedere i titoli di coda abbiamo impiegato quasi 140 ore. Per quanto ci riguarda, un gioco story driven con questa durata è assolutamente inaccettabile: nelle ultime decine di ore, Original Sin II è diventato per noi quasi una specie di peccato da espiare, un percorso di colpa, una fatica di Sisifo. Non dobbiamo dimenticarci che siamo di fronte a un gioco intenso e serrato, quasi completamente privo di momenti di pura e semplice distrazione esplorativa: crediamo di non stare affermando una bestialità quando diciamo che nel progettare un gioco siffatto il programmatore debba fare attenzione non solo alla qualità ma anche alla quantità, pena il nauseare il giocatore affibbiandogli un impegno assolutamente sproporzionato alla soddisfazione ricevuta dal suo completamento. Ancora una volta, Larian deve decidere cosa fare da grande: sta producendo giochi per adolescenti nullafacenti? O per appassionati di vecchia data, quindi ormai adulti e magari con una famiglia e un lavoro?
A rendere ancora più urgente questa scelta è il fatto che per quel che riguarda gli aspetti che maggiormente definiscono la sua identità, Original Sin II è un gioco per molti versi eccezionale. La vicenda narrata è finalmente coinvolgente e interessante, i personaggi sono costruiti con somma maestria, i combattimenti pur con i loro difetti restano godibilissimi. A mancare sono aspetti forse più impalpabili: l’equilibrio, la misura, la coerenza, l’organicità. Ma a volte sono proprio questi tratti a distinguere il buon gioco dal capolavoro.

Tre pregi di Original Sin II
Tre difetti di Original Sin II
Trama finalmente interessante e ben raccontata
NON FINISCE MAI!
Personaggi ottimamente caratterizzati
Le armature rendono la gestione dei combattimenti meno interessante che nel predecessore
Dialoghi interamente parlati, incluso il narratore!
Il livellamento degli oggetti è troppo indiscriminato e quindi sciocco e frustrante

4 thoughts on “Divinity: Original Sin II”

  1. “l’altro difetto di Original Sin II è la durata infinita”: avevo scritto che Divinity Original Sin è un gioco per appassionati, e la stessa cosa sarà per il secondo capitolo. Ora, se si è appassionati, ci si vorrà probabilmente cimentare in una seconda e terza run. Se invece non lo si è, il fatto di giocarci al solo scopo di ‘arrivare alla fine’, lo trasformerà in un INCUBO.

  2. Questo mi rievoca quanto avvenuto per alcuni giochi.
    Allora: il gioco è troppo difficile, richiede impegno, pazienza, a volte anche studio e documentarsi su Internet.
    Si tratta di un impegno esagerato, se si tratta soltanto di fare una giocata per poi passare ad altro.
    Immaginate di dover imparare a giocare a Magic the Gathering soltanto per fare due partite e poi basta.
    Ecco perchè giocare a DOS 2 soltanto allo scopo di finirlo si trasformerà in una Tortura.

Leave a Comment

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Scroll to Top