Divinity II: Flames of Vengeance

L’espansione di Divinity II si concentra, molto intelligentemente, sui punti di forza del gioco base, offrendoci molte ore di valido intrattenimento a base di missioni varie, complesse e ispirate.

[articolo originariamente pubblicato il 25 luglio 2013]

1. Il prosieguo obbligatorio
Una delle caratteristiche più singolari di Divinity II, gioco di ruolo digitale uscito dalla ‘penna’ di Larian Studios nel 2009 come seguito dell’ottimo e tutt’ora misconosciuto Divine Divinity del 2002, è il suo finale: un elemento di cui non abbiamo parlato nella recensione originale, per evitare spoiler eccessivi. Ma ora è il caso di affrontare l’argomento, dato che si tratta di una ottima introduzione dell’analisi dell’espansione di Divinity II, intitolata Flames of Vengeance (il pacchetto completo si trova attualmente in vendita su molte piattaforme di download digitale col titolo Divinity II: Dragon Knight Saga, ultimamente arricchito da contenuti speciali e quindi dotato dell’ulteriore sottotitolo Developer’s Cut).
In Divinity II, l’eroe comincia come cacciatore di draghi per trovarsi, dopo poco tempo, dalla parte opposta della barricata: ossia ad agire come ultimo esponente della genia dei draghi, le antiche e sagge divinità di Rivellon, il mondo fantasy in cui è ambientata tutta la saga. A guidare i passi del protagonista nel suo lungo viaggio verso il progressivo recupero delle abilità draconiche è una sorta di voce interiore, appartenente al drago, di nome Talana, la cui anima viene ‘assorbita’ dall’eroe nel corso delle prime fasi di gioco. L’articolata avventura in cui si concretizza la campagna del gioco base si incentra sulla sconfitta del terribile Damian, figlio del Signore del Caos ‘salvato’ dall’eroe di Divine Divinity, il cosiddetto Divine One, e impegnato a seminare il terrore in tutta Rivellon. Le ultime battute della storia, però, costringono il giocatore a rileggere retrospettivamente l’intera vicenda dandole un senso del tutto diverso: la voce interiore, infatti, non era affatto quella di Talana ma quella di Ygerna, la compagna di Damian, uccisa a suo tempo dal Divine One. Ygerna riesce a fingersi Talana dall’aldilà per convincere l’eroe a seguire i suoi ordini: ogni incarico portato a termine durante il gioco base, quindi, non serviva affatto a indebolire Damian, bensì a resuscitare Ygerna. Essendo i due negromanti soul-forged, cioè legati indissolubilmente tramite rito magico, solo il ritorno in vita di Ygerna può garantire a Damian una vera immortalità. In poche parole, l’intera avventura di Divinity II è una presa in giro da parte del nemico: pur completandola in ogni sua parte, il giocatore si troverà davanti una conclusione catastrofica.

2. La seconda possibilità
È chiaro che con siffatte premesse una espansione diventa quasi obbligatoria, non tanto per avere per forza un lieto fine quanto per ripagare almeno in parte il giocatore dandogli, in un certo senso, una seconda chance. La nuova campagna inizia con il nostro eroe intrappolato dentro una prigione di cristallo nel piano chiamato Hypnerotomachia (en passant, trattasi di dottissima citazione riferentesi al romanzo allegorico Hypnerotmachia Poliphili pubblicato nel 1499 dallo stampatore veneziano Aldo Manuzio). Non si tratta esattamente dell’aldilà, bensì di un piano parallelo che si ‘affaccia’ sul piano materiale: l’intento di Damian è non solo quello di travolgere Rivellon riportandolo al Caos primordiale, ma anche mostrare tutto ciò al protagonista del gioco nonché al Divine One, che si chiama Lucian e si trova intrappolato proprio di fianco all’eroe. Il motto di Damian, la cui natura caotica si deve proprio al rapporto d’amore insano e travolgente con Ygerna (richiamo a due novelli Adamo ed Eva?), potrebbe essere: “oltre al danno, la beffa”. Non era infatti una gigantesca beffa l’intera avventura narrata nel gioco originale?
Il veicolo tramite cui viene offerta all’eroe la possibilità di ribaltare lo scenario è un demone di nome Behrilin, seppellito nelle profondità di Aleroth, la città da cui prendeva avvio Divine Divinity, presente anche nel seguito ma solo come sfondo di una breve missione secondaria. L’espansione ci dà modo di esplorare per bene i suoi recessi, nel tentativo, questa volta davvero a portata di mano, di fermare le oscure schiere di Damian, che stanno bersagliando la città con un terribile bombardamento, reso temporaneamente inoffensivo grazie a una barriera magica tenuta in vita dal potente mago Zandalor (che in un certo senso incarna la figura del ‘narratore’ di tutta la saga). Behrilin è una creatura oscura e pericolosa, e il suo aiuto non è certo disinteressato: ma non è detto che la sua longa manus sia l’unica opzione in campo. La città di Aleroth, infatti, pullula di missioni e di personaggi strani e potenti, pronti non solo a offrirci nuove avventure ma anche a farci conoscere meglio il mondo di Rivellon, e le motivazioni spesso contorte dietro i comportamenti dei protagonisti della sua storia.

3. Il mondo in una città
Flames of Vengeance è ambientato interamente ad Aleroth: se in Divine Divinity si trattava di un piccolo villaggio, nel nuovo capitolo si tratta di una città di dimensioni abbastanza cospicue, che l’espansione ci dà modo di esplorare in modo assai meticoloso, rendendo accessibile anche gran parte degli interni. Una parte della città è pacifica, un’altra parte è infestata da mostri che rendono le esplorazioni più rischiose (e che, purtroppo, si rigenerano periodicamente): in generale, le creature ostili sono di livello piuttosto alto e richiedono dunque un personaggio sufficientemente ‘allenato’ nel gioco base. La giocabilità generale resta ovviamente identica a quella vista in Divinity II, alla cui recensione rimandiamo per ogni relativo approfondimento: gli elementi di originalità, purtuttavia, non mancano, e meritano di essere evidenziati.
I nuovi livelli ottenuti dal protagonista, che vanno ad affiancarsi al guadagno di una quantità di punti-abilità davvero elevata (principalmente grazie ai tanti libri-abilità presenti nel mondo di gioco), consentono di continuare proficuamente il potenziamento e la specializzazione dell’eroe: all’uopo, i programmatori hanno pensato bene non di aggiungere nuove abilità bensì di aumentare il livello massimo delle abilità già esistenti. Il protagonista potrà accedere con facilità ai servizi di vari nuovi addestratori, ma va sottolineato anche il fatto che la Battle Tower, ossia la ‘base’ messa a disposizione del protagonista nel gioco base, resta accessibile anche nell’espansione, con tutta la sua serie di negozianti e di ‘allenatori’.
Complessivamente, l’espansione è costruita in modo da risultare, rispetto al gioco originale, più incentrata sulle missioni, talvolta anche molto complesse e dotate di varie biforcazioni, e meno sull’esplorazione di ampi spazi. Le ambientazioni offrono comunque molti spunti al giocatore attento ai particolari: le aree nascoste si sprecano, così come le missioni non documentate nel diario e quindi risolte nella pura e semplice manipolazione dello scenario. Quel che ci pare più degno di nota è l’originalità di molti contenuti, un tratto che peraltro accompagna la serie fin dai suoi esordi. A questa freschezza primigenia si affianca talvolta la rara capacità di legare i temi trattati alla giocabilità, dando a varie missioni una forte parvenza di unicità. In un frangente, per esempio, il nostro eroe dovrà entrare in una casa in fiamme, col compito di salvare tre oggetti preziosi: la tempistica risulterà essenziale, ma anche la capacità di valutare quali, tra gli oggetti, saranno destinati a farsi consumare più rapidamente dalle fiamme. In un’altra circostanza, il protagonista avrà modo di vendicarsi contro un truffatore di cui fu vittima nel gioco base: la missione è, in termini pratici, il ribaltamento di quella vista in Divinity II, con effetti paradossalmente comici. In altri casi, l’originalità prende le forme di un riuscitissimo umorismo, basato soprattutto sui doppi sensi: nella piazza di Aleroth è la bancarella di un alchimista, preso costantemente di mira da una fanciulla, che tenta di conquistarlo producendosi in una esilarante serie di complimenti infarciti di metafore sessuali, che cambiano ogni volta che il protagonista si trova a passare nei pressi. Questi contenuti brillanti riescono a far dimenticare, almeno in parte, la ripetitività dei meccanismi di gioco, che tende a presentarsi inevitabilmente quando si arriva da una campagna base durata già più di sessanta ore.

4. Camminare è meglio che volare 
Le vicende dello sviluppo di Divinity II e della sua espansione sono un ottimo esempio di come sia sempre necessario, per i programmatori, puntare sugli aspetti più riusciti della propria opera: anche a costo di andare contro le idee che hanno guidato la creazione dell’opera stessa. Per il gioco base, l’elemento su cui gli autori puntarono maggiormente, anche dal punto di vista della comunicazione pubblicitaria, fu la possibilità di trasformare l’eroe in un drago, e quindi di controllare direttamente una delle creature più amate in assoluto nei mondi fantasy. Ebbene, le sezioni di avventura vissute in forma di drago erano certamente, in Divinity II, un ottimo modo per variare la giocabilità, ma risultavano meno approfondite e complessivamente meno riuscite di quelle ‘tradizionali’, vissute in forma umana.
Nell’espansione, i ragazzi di Larian sono corsi ai ripari e hanno incentrato la nuova avventura quasi unicamente sull’esplorazione incollata al terreno. La narrazione giustifica in pieno la scelta: i cieli di Aleroth sono inaccessibili a causa dei continui bombardamenti da parte di Damian, temporaneamente resi inoffensivi dalla barriera evocata da Zandalor. Certo, la componente ‘draconica’ non è scomparsa del tutto: ma ci tocca affermare che la sua repentina ricomparsa, nelle battute finali della campagna, si rivela essere ancora una volta il punto più debole del prodotto.
L’avventura giunge verso la sospirata conclusione con il rinvenimento, da parte dell’eroe, di un prezioso manufatto magico, che deve essere portato nella fortezza di Damian per poter sprigionare tutto il suo potere. Zandalor si occupa del trasporto tramite un dirigibile che deve essere difeso dalle orde del male: e la difesa tocca proprio all’eroe in forma di drago. Il dirigibile avanza su una rotta chiaramente indicata nello scenario: il protagonista deve, in un certo senso, ‘liberare’ la strada da torri con balestra e demoni volanti, tenendo sempre sotto controllo lo ‘stato di salute’ del dirigibile, dato che in caso di sua distruzione la partita è persa.
Ci spiace un po’ affermarlo, dato che come si sarà compreso da queste parti apprezziamo molto il lavoro dei ragazzi di Larian, ma questa sequenza di gioco, che dovrebbe rappresentare il culmine dell’avventura, è un clamoroso errore di design. Non solo perché richiede una velocità e un tempismo che mal si confanno alle atmosfere che pervadono il resto della campagna, ma anche perché rimette al centro della scena una modalità di gioco che era stata messa da parte per decine di ore, con tutte le conseguenze del caso. Riprenderemo il controllo del drago ritrovandolo nelle stesse condizioni in cui l’avevamo lasciato alla fine di Divinity II, dunque considerevolmente più debole dell’eroe in forma umana; per compensare in parte a questa debolezza, ci verrà offerto il controllo di nuove abilità distruttive, ma non avremo alcuna possibilità di apprenderne il funzionamento in un ambiente in qualche modo protetto. Saremo proiettati immediatamente, e senza possibilità di abbandonarci alla minima distrazione, dentro una battaglia complessa e articolata: anche se dopo questa sequenza c’è il ‘vero’ combattimento finale contro Ygerna, che avviene fortunatamente in forma umana, sarà un po’ come dover giocare lo scontro finale di una lunga avventura secondo modalità completamente diverse da quelle sperimentate nel corso dell’avventura stessa.
La “varietà” non deve mai e poi mai concretizzarsi nelle forme della frammentazione o del disequilibrio: eppure ci sembra che questi problemi siano sempre più presenti nei GdR di ultima generazione (ci viene in mente, pur per fattispecie molto diverse, anche l’ottimo The Witcher 2). Divinity II si faceva notare, nella sua campagna base, proprio per l’abilità nell’introdurre tante modalità di gioco in modo lento e graduale, con grande attenzione verso la componente narrativa, adoperata come ‘collante’ tra i vari comparti: questo virtuosismo lascia spazio, nell’espansione, a una giocabilità resa spuria da un ‘salto’ repentino e irritante, che molto probabilmente farà sì che molti utenti abbandonino il gioco proprio prima di giungere all’epica conclusione.

5. Conclusione
Se si esclude lo scivolone rappresentato dal pre-finale, Flames of Vengeance è un’ottima espansione e va consigliata senza dubbio a tutti coloro che hanno amato il gioco originale. Tra l’altro, le modalità con cui il prodotto viene attualmente venduto rende praticamente impossibile l’acquisto del gioco ‘liscio’, quindi il nostro consiglio è anche abbastanza inutile: comprate tutto il pacchetto, installate tutto e preparatevi a una campagna che, globalmente, può arrivare a durare anche una novantina di ore.
I ragazzi di Larian sono senza dubbio molto talentuosi e pieni di risorse: ma restano caratterizzati, anche dopo molti anni dal loro esordio, da una certa latente ingenuità. Per certi versi la loro parabola ricorda quella di Piranha Bytes: da un lato mostrano tante idee e una notevole originalità nel modo di porsi, dall’altro sembrano del tutto incapaci di raggiungere quella ‘pulizia’ e quell’equilibrio che distinguono i grandi capolavori dai prodotti ‘semplicemente’ buoni. Vedremo cosa succederà col prossimo episodio della saga, ovvero Divinity: Original Sin.

Tre pregi di Flames of Vengeance
Tre difetti di Flames of Vengeance
Missioni varie e interessanti
Il pre-finale in forma di drago è una notevole caduta di stile
Molto longevo
La rigenerazione dei mostri provoca frequenti e inutili combattimenti
La forma draconica viene giustamente messa quasi del tutto da parte
Assieme alla campagna del gioco base è fin troppo longevo!

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