In occasione di un piccolo contest, abbiamo deciso di chiedere ai nostri lettori di tentare una contro-recensione di uno dei titoli analizzati dal sito. Ci ha provato il coraggioso Antonino Fiore, che si è fatto ispirare nientemeno che dalla nostra recensione di Planescape: Torment.
Vi presentiamo il suo contributo così come ci è stato spedito.
[articolo originariamente pubblicato il 18 novembre 2014]
Cosa può cambiare la natura di un videogiocatore, sfatandone miti e certezze?
Ebbene, questa contro-recensione è un esperimento, una provocazione, un sasso lanciato scherzosamente che in maniera incontrollata finirà sul povero occhio di qualche innocente, colpevole di essere di passaggio. È possibile, insomma, demolire il mito di uno dei più importanti pilastri videoludici di sempre? È possibile farlo con cognizione, correttezza e in modo pacato?
Credo di no, io stesso ho amato ogni attimo di Planescape: Torment e lo difenderei a spada tratta da critiche eccessive, ma ci proverò ugualmente.
[nda: lo chiamerò anche Planescape, senza riferirmi all’ambientazione di AD&D]
1. Maturità graduale
Nel 1999 alcuni fortunati ‘pionieri’ conoscono quello che sui forum del settore diverrà il must per eccellenza, consigliato ad ogni neofita o anche a chi, suo malgrado, cerca qualcosa di mai provato prima e si ritrova l’immancabile ed intoccabile trilogia di genere (Fallout, Baldur’s Gate, Planescape), alla quale si aggiungeranno Arcanum e Morrowind, proposta inevitabilmente e senza riguardo. Senza riguardo perché il poveretto li avrà certamente già giocati e cercava davvero un gioco dimenticato. Spacciati come sacra ed intoccabile manna dal cielo, con tutti i loro innegabili pregi, e ritrovati difetti, questi giochi sono diventati la punta di diamante di un genere che si è evoluto tanto da cambiare natura, non necessariamente in senso negativo.
Ma si sa, il diamante è inscalfibile, il canone difficile da abbattere. La fetta dei giocatori di CRPG ha trovato ciò che la identifica e la unisce, come pochi anni addietro gli appassionati degli story-driven di matrice nipponica ha fatto con Final Fantasy VII, o gli amanti degli action-rpg faranno con Deus Ex.
Quale è il problema in tutto ciò? È normale che qualcosa finisca sul podio, soprattutto quando è un prodotto di valore, artistico, completo e coerente con le sue premesse.
Il problema è che ci si dimentica di due fattori molto semplici:
• i titoli pregressi;
• esiste sempre qualcosa che non si è giocato.
Se da un lato si ha un pubblico immaturo, un pubblico che non vuole leggere, odia la lentezza, dall’altro c’è una fetta di videogiocatori istruita, o comunque gradualmente introdotta a un’apertura mentale verso generi, sotto-generi, meccaniche, scelte stilistiche.
Planescape è indubbiamente un ottimo gioco, sopra la media, ma è stato circondato da un’aura che lo danneggia, come un quadro nascosto al pubblico (ma ehi, fortunatamente è ancora usufruibile!)
Esaminiamo brevemente i due suddetti punti:
• Planescape è stato anticipato da venti anni di videogiochi. Venti anni, a essere imprecisi, ma comunque tanti. In questi venti anni siamo passati da Zork a Shining Force, da The Secret of Monkey Island ad Amerzone, e così via. Anche se cambia la tipologia di gioco, siamo di fronte ad un processo, non a casi isolati. Le avventure testuali si sono diramate come un albero: giochi di ruolo, avventure grafiche, sandbox di vario genere sono solo alcuni dei fattori di un elemento comune. Questo elemento è la narrazione, la narrazione è la scorza vitale del medium, rafforzata dalla possibilità di scegliere (un tragitto o una storia, un azione o un personaggio) ed è comune a tutti i videogiochi: dal meno libero come Pac-Man, nel quale la storia si limita allo scopo del giocatore e le scelte alla via da prendere per evitare gli ostacoli, al più intricato come un CRPG di ottima fattura (superfluo fare nomi).
• Eviterò un discorso campanilista chiamando in causa giochi che ho adorato quanto (o più) di Planescape. Il punto è: chi ci dice che in questi venti anni la vita, la morte, le scelte non siano già state affrontate con uguale (o semplicemente diversa) profondità?
L’esperienza, un processo infinito.
2. Vita, morte. Oppure anche altre cose, che non fanno male
La mole di testo presente in Planescape: Torment è… una mole. Non credo neanche io che esistano giochi con la stessa quantità di testo (ma non ci metterei la mano sul fuoco), profondo e maniacalmente curato.
Ma c’è un ma.
Quello che non viene detto è che spesso questo testo è ridondante. È vero: è una nostra scelta chiedere a chiunque incontriamo chi sia “La Signora”, per vedere quali nuove sfaccettature avrà da offrirci la trama. Impreziosisce il gioco la presenza di queste scelte, come ogni leggera variante nei rapporti e così via. Ma qui voglio introdurre un altro discorso, sul quale spero qualcuno concorderà, a prescindere dal fatto che stiamo parlando di una perla videoludica: un videogioco non è un gioco cartaceo.
Lapalissiano, presuntuoso da parte mia ricordarlo. Ma voglio precisare: non intendo che un videogioco non abbia diritto a una libertà quanto più vasta possibile e immaginabile (che comunque, come dirò più avanti, è relativa in Planescape), dico che un videogioco ha dei confini.
Nonostante la via che sceglieremo di intraprendere, ci sono dei confini: è fisicamente possibile esaurire le risposte degli NPC, per esempio. Il tempo non cambia le cose (lo fanno gli eventi ‘scriptati’). Lady of Pain ci impedisce di essere infinitamente sanguinari, non che sia necessario. Infine, se la morte è il gameover (ops, l’obitorio in compagnia di Morte!) e si ricomincia, la vita si conclude con l’ultimo, famoso, inevitabile incontro. Eviterò lo spoiler, ma nonostante l’allineamento e le scelte di vario genere, si va incontro a tre finali, inevitabili: sto dicendo che Planescape è più vicino ad uno story-driven giapponese che ad un CRPG classico (eresia!), anche se questo discorso può valere anche per un CRPG classico, con le dovute cautele.
Inoltre, la mancanza di curiosità non paga, poiché porta alla disconoscenza di parti di trama che arricchiscono il gioco.
Altri limiti:
• i vicoli ciechi (narrativi) e le possibilità mancanti (Fall-From-Grace, cosa dirà mai il tuo diario?);
• le gilde indifferenti;
• i piani, salvo Mechanus, sono limitati e concentrati nella fase finale del gioco;
• il consiglio universale è alzarsi la statistica “Wisdom”… perché altrimenti si ha un gioco ‘mozzato’.
Prima del 1999 altri giochi hanno affrontato la vita, la morte, allo stesso modo, con meno testo forse e attraverso storie con sequenza lineare?
Si. Prima del 1999 ci sono stati giochi che pongono di fronte a microscelte di uguale intensità, o richiamano con la stessa capacità artistica le più profonde emozioni, coordinando colonna sonora e tecnica (oggi, si sa, c’è la possibilità di dare addirittura un taglio cinematografico a ciò che si racconta, ma fa parte dell’evoluzione videoludica).
Il genere è uno schema indicativo, ma bisogna ignorarlo per capire quanto il mondo dei videogiochi, della programmazione e dello storytelling sia caratterizzato da un continuo dialogo col pubblico e con i propri predecessori. Planescape è uno degli esiti di un processo che continua anche dopo il suo trionfo, al di la dei CRPG. Mitizzarlo significa negare questa ricerca, non dare possibilità a quello che è venuto prima e che verrà, probabilmente seguendo la lezione dell’opera in questione.
3. I piani. Ma piano piano
Ho già avuto modo di dire come nonostante la vastità dell’ambientazione i piani che vengono visitati facciano parte di un corridoio narrativo ben nascosto tramite dialoghi ed esplorazione, comunque graduale e guidato per forza di necessità. Non sto dicendo che sia un difetto, sto dicendo che è inevitabile. Ovvero:
• Planescape: Torment non è un gioco eversivo. Soggiace alle stesse regole del mondo videoludico, decide di farne parte, non credo che provi neanche a nasconderlo. L’aggettivo che userei è “coraggioso”, perché ha sfidato un mercato, ma il target di riferimento era prontissimo ad accoglierlo… come i fatti hanno dimostrato;
• è un bene che finisca, altrimenti sfuggirebbe allo schema che gli permette di funzionare;
• non fa rimpicciolire gli altri RPG. Il suo valore è insito in sé ed è stato anticipato, superato, preso ad esempio (magari non platealmente o con i risultati sperati). Non nasce dal nulla.
Ma sì:
• è un gioco necessario. Ha insegnato che i videogiochi seguono gli schemi di un’arte, aggiungendo la multimedialità. Ha insegnato che è possibile sfidare la stasi creativa imposta dal mercato;
• è adulto e maturo, senza dimenticare l’ironia e l’intrattenimento;
• è un gioco di 15 anni fa, ma la nicchia lo ama ancora, fregandosene della grafica.
Quindi, se il gioco mi sa che è davvero intoccabile nel suo valore totale, spero lo sia almeno il piedistallo creato dalla comunità di giocatori. Penso sia importante riconoscere i difetti di un videogioco, quelli veri, non quelli che rivelano o confermano i pregi; è vitale per riuscire a creare un canone completo e trasparente, che riconosca chi partecipa per migliorarlo, senza annebbiarsi con confronti non necessari tra titoli curati e onesti nell’intento (per maggiori informazioni, vedere quel povero Oblivion, criticato inutilmente).