Sono ormai sempre più diffusi anche in Italia i giochi di ruolo online di massa (MMORPG). Pur avendo una giocabilità completamente diversa dai prodotti destinati al giocatore singolo, i MMORPG vengono spesso accomunati a questi ultimi, tanto che la sigla ‘RPG’ è da sempre parte della loro denominazione. E’ solo una categorizzazione semplificante, o ha senso accomunare l’interpretazione solitaria o fra pochi amici a quella ‘di massa’?
[articolo originariamente pubblicato l’11 settembre 2005]
1. Divertimento collettivo
E’ praticamente da quando esiste internet, cioè da quando esiste la possibilità di collegare e di far comunicare fra loro i computer sparsi per tutto il mondo, che si tenta di sfruttare le potenzialità della grande rete in senso ludico. Fino a pochi anni fa, la connessione a internet era quasi un lusso che pochi potevano permettersi: oggi invece è normale, nei paesi occidentali, che ci sia una connessione ‘flat’ (cioè continua, non vincolata al tempo trascorso online) in ogni casa. Sottolineiamo che fa caso a parte la nostra Italia, dove internet è ancora poco diffuso rispetto agli altri paesi dell’occidente, per ragioni culturali ma anche e soprattutto economiche (in Italia, nonostante si dica il contrario, vige ancora un regime di semi-monopolio che comporta tariffe di connessione scandalosamente alte rispetto a quelle del resto d’Europa); comunque la strada tracciata per il futuro è quella di un mondo sempre più ‘online’, e la situazione attuale dei paesi della Scandinavia, dove le connessioni a internet sono gratuite per tutti, diventerà nei prossimi anni comune in tutto il mondo sviluppato. La diffusione a macchia d’olio delle connessioni private ha consentito all’industria videoludica di investire risorse nel complicato campo del gioco ‘online’: se per decenni l’intrattenimento al computer è stato sinonimo di intrattenimento solitario, o al massimo condiviso fra due persone (ci sono gloriosi esempi, in passato, di giochi che adoperavano la tecnica dello schermo diviso), internet ha permesso di superare questa impostazione costruendo giochi nei quali si poteva sfidare non solo l’intelligenza artificiale del computer ma anche avversari in carne ed ossa dislocati in chissà che parte del mondo e in quel momento collegati alla rete. Così appunto ebbe inizio l’avventura: giochi di combattimento (principalmente sparatutto e strategia) dove si poteva o svolgere una partita tradizionale contro il computer oppure una partita in multiplayer, sfruttando le connessioni alla rete. Nella prima fase di sviluppo del gioco online, la modalità multigiocatore era generalmente relegata in secondo piano rispetto a quella a giocatore singolo: in anni in cui non molti sono i giocatori che possono permettersi lunghe sessioni su internet (non dimentichiamo che fino a poco tempo fa stare online era come stare al telefono, e che per giunta si teneva per tutto il tempo la linea occupata), la partita in multigiocatore può al massimo configurarsi come piacevole, sporadica alternativa alla normalità del gioco contro il computer. Ormai, però, i tempi stavano cambiando: con la prima comparsa delle connessioni a banda larga, molti sviluppatori hanno cominciato a mettere in cantiere progetti di giochi pensati esclusivamente per il multigiocatore. A segnare il debutto dei giochi esclusivamente multiplayer furono fondamentalmente due generi: lo sparatutto e, appunto, il MMORPG. Potremmo considerare capostipite di questo particolarissimo genere Ultima Online di Origin, ancora oggi giocato nonostante la sua ormai veneranda età, tradita dalla grafica molto modesta se confrontata con gli ultimi titoli della categoria.
2. Costretti ad essere liberi?
Ma cos’è di preciso un MMORPG, sigla che sta per Massive Multiplayer Online Role Playing Game? L’idea alla base è quella del mondo persistente: i programmatori creano una ambientazione all’interno della quale ciascun giocatore può agire collegandosi al server del gioco e facendovi entrare il proprio personaggio; una volta terminata la sessione, basta scollegarsi, però il mondo di gioco continua a esistere per gli altri giocatori ancora collegati. Su questa ricetta-base possono innestarsi variazioni praticamente infinite: alcuni MMORPG prevedono ad esempio server diversi per ciascuna nazione (così da permettere ai giocatori di trovare colleghi che parlano la stessa lingua), altri prevedono zone particolari generate singolarmente per ciascun giocatore o per ciascun gruppo di giocatori (le cosiddette istanze); alcuni prevedono la possibilità di far combattere i giocatori fra di loro, altri invece consentono ai giocatori di scontrarsi solo con i mostri controllati dal server; e così via. In questa sede non ci interessa analizzare le caratteristiche dei vari MMORPG in circolazione né sondare le tendenze e le aspettative in questo campo, bensì capire se la seconda metà di questa sigla ha un senso oppure no, cioè se siamo di fronte a una ulteriore possibilità per chi cerca personaggi da interpretare, oppure se si tratta di qualcosa di diverso a cui la sigla “RPG” è stata accostata solo per ragioni di rapida classificazione o di marketing pubblicitario. Ad una occhiata veloce, sembra che tutti gli elementi caratterizzanti il “giocare di ruolo” siano presenti anche nei MMORPG: c’è un personaggio da creare da zero, c’è la possibilità di farlo muovere all’interno di un mondo più o meno approfonditamente disegnato, c’è la possibilità di farlo interagire con personaggi non giocanti e di fargli ottenere missioni di varia natura con cui migliorare le sue abilità… insomma, apparentemente c’è tutto. Anzi, apparentemente c’è perfino di più. Molte persone sostengono che il vero amante dei giochi di ruolo è colui che gioca ai MMORPG, e queste persone solitamente si appigliano a due argomentazioni. La prima è che il gioco di ruolo nasce come interazione fra persone in carne ed ossa, non fra una persona e una intelligenza artificiale, per quanto sofisticata: il personaggio interpretato dal giocatore può, in un MMORPG, non solo ottenere una missione predefinita da un NPC ma anche interagire con un personaggio gestito da un altro giocatore; questo porta all’assenza di qualunque tipo di prevedibilità e all’apertura di un ventaglio di possibilità interpretative apparentemente infinito. Una situazione che non sarà magari identica a quella di due persone che danno vita ai loro personaggi uno di fronte all’altro, ma che sarà comunque certamente più vicina al tradizionale spirito del gioco di ruolo da tavolo che non una sessione giocata in solitario davanti a uno schermo. La seconda argomentazione, decisamente più raffinata e meno banale, riguarda i metodi di costruzione del mondo di gioco. In un RPG per giocatore singolo, solitamente la parte a cui il programmatore dà maggior peso è la storia che dovrà vivere il personaggio gestito dal giocatore: una storia che naturalmente potrà essere caratterizzata da molteplici strade e direzioni, e che magari sarà affiancata da molte storie minori che diano al giocatore la sensazione di essere in un mondo aperto e non in una semplice scenografia costruita appositamente attorno alla storia principale, però… però il ruolo della trama resta centrale e ineludibile. Quella che sto evocando è l’annosa questione della opposizione fra quella che ho chiamato interpretazione condizionata e quella che ho chiamato interpretazione radicale: nella prima, che è quella presente nel 99% dei CRPG per giocatore singolo, l’interpretazione viene messa in atto nelle scelte da compiere per passare da un capitolo all’altro della storia vissuta dal nostro personaggio; nella seconda, il nostro personaggio viene semplicemente messo dentro a un mondo ed è compito suo andarsi a cercare (ed eventualmente crearsi) le storie da vivere. La mia opinione è che entrambe le opzioni rientrino nel campo dell’interpretazione, ma è innegabile che la seconda, l’interpretazione radicale, sia non solo la più affascinante da un punto di vista teorico ma anche la più foriera di creatività all’atto pratico; fermo restando che una grande sceneggiatura è sempre e comunque in grado di dare senso all’interpretazione, per quanto quest’ultima risulti condizionata (Planescape: Torment è un ottimo esempio in questo senso). In ogni caso, il maggior fascino della interpretazione radicale si accompagna a una maggiore difficoltà di concretizzazione della stessa: non solo attorno a un tavolo, ma anche (e soprattutto) davanti allo schermo di un computer. Anzi, diciamo pure che se non ci fossero Bethesda e la serie The Elder Scrolls, potremmo pure dire che l’interpretazione radicale su computer non esiste. E proprio qui si innesta la seconda argomentazione a difesa del “ruolismo” dei MMORPG: nei giochi di ruolo online è impossibile che vi sia una storia con molto peso, per il semplice fatto che ci sono centinaia di migliaia (se non milioni) di personaggi giocanti, e non è possibile che ciascuno di essi sia il protagonista della stessa storia, né che i programmatori prevedano una storia nuova per ciascun personaggio. Insomma, sarebbero proprio le limitazioni tecniche insite nel genere a far sì che nel MMORPG la sceneggiatura passi in secondo piano a favore della libertà totale lasciata al giocatore. Ecco allora che nella maggior parte dei MMORPG gli autori si limitano a creare un mondo, magari raccontandone la storia passata e delineandone le diverse fazioni in lotta; non esistono, nei MMORPG, storie epiche da vivere: esistono al massimo piccole missioni assegnate dai NPC, ma tutto il resto è come sospeso in una sorta di stabilità precaria, dove i giocatori possono combattere per giorni, settimane o anche mesi senza però che le loro eroiche gesta provochino cambiamenti significativi nel mondo di gioco. Non è un caso che alcuni abbiano diretto a Morrowind, terzo capitolo della serie The Elder Scrolls, una critica davvero singolare: Bethesda avrebbe tentato di imitare i MMORPG costruendo una specie di gioco online per giocatore singolo; la critica deriva dal fatto che in Morrowind, pur esistendo una trama che per quanto mi riguarda è di prim’ordine, esistono anche un background molto approfondito e una grande libertà d’azione dentro un mondo molto vasto, proprio come in molti MMORPG. Qual è l’inghippo, allora? Come mai in un sito come questo il MMORPG ha così poco spazio, se in esso vi è la quintessenza del giocare di ruolo?
3. Il gioco di ruolo è per ‘pochi’
“Vado a espare!”
“Ieri sera mi hanno bannato un account!”
“Chi vuole gruppare?”
“Stavo farmando quando un mob ha droppato un item fantastico!”
“Quando grindi è meglio solare, si expa di +.”
Linguaggio alieno? Stranieri che tentano di parlare italiano? No: si tratta semplicemente di frasi sentite durante varie sessioni di gioco di ruolo online, oppure durante discussioni riguardanti qualche MMORPG (le riporto a memoria, quindi magari non sono corrette: ma i termini sono tutti autentici e adoperati comunemente fra gli appassionati). Non metto qui queste frasi per prendere in giro chi le ha scritte o per fare il professorino: del resto, anche gli appassionati di RPG per giocatore singolo usano tonnellate di termini inesistenti e improbabili mentre parlano del loro hobby (anche se La maschera riposta fa il possibile per limitare i danni e per rispettare la nostra magnifica lingua). Credo però che sia significativo il fatto che il linguaggio adoperato dai giocatori di MMORPG non ha pari quanto a incomprensibilità e ridicolaggine: alcuni penseranno che dipende dal fatto che in un MMORPG bisogna per forza adoperare l’inglese, ma il linguaggio resta tale e quale anche quando si parla di giochi completamente tradotti in italiano e dotati di una comunità italiana estremamente attiva e vitale (vedi Guild Wars). Quindi il problema è qualche altro. Perché è innegabile che di problema si tratti. Quando un giocatore che sta interpretando un personaggio immaginario in un mondo fantasy medievaleggiante fa pronunciare al suo medesimo personaggio frasi come quelle sopra, i casi sono due: o è capitato nel posto sbagliato e verrà invitato ad andarsene nel giro di poco tempo, oppure nel posto in cui si trova è normale parlare in questo modo, e quindi non sta affatto interpretando un personaggio in un mondo fantasy medievaleggiante, sta facendo qualcos’altro. Naturalmente, l’opzione giusta è la seconda: nelle mie peregrinazioni nei MMORPG quasi tutti parlano come i giocatori di cui sopra, e il raro personaggio che ti si rivolge in modo credibile, coinvolto e appassionato, appare come un pesce fuor d’acqua, lui sì capitato nel posto sbagliato. Come mai? La risposta è abbastanza ovvia: per quanto l’ambientazione di un gioco sia curata, se migliaia di persone possono accedervi contemporaneamente è naturale che fra queste persone vi siano anche coloro che sono interessati non all’interpretazione ma unicamente ai combattimenti e al potenziamento del proprio personaggio, insomma alle forme di divertimento più immediate e meno complesse; altrettanto naturale è che queste persone risultino, alla fine, maggioritarie rispetto alle altre. Non si tratta di snobismo elitario: l’interpretazione è una cosa abbastanza complessa e per questo risulta abbastanza incomprensibile che si tenti di coinvolgere in essa milioni di persone. E’ come se a un convegno dedicato a un complesso tema volessero prendere la parola migliaia di persone che non sanno nulla dell’argomento: credo che gli organizzatori e gli esperti non sarebbero entusiasti, e a nessuno verrebbe in mente di accusarli di snobismo. Si tratta solo di cercare di dare alle cose il loro giusto nome. In realtà, il problema non è neanche solo questo. Immaginiamo che, in seguito a una particolare congiunzione astrale, tutte le migliaia di persone connesse contemporaneamente al server di un MMORPG vogliano fare vera interpretazione: ebbene, neanche in questo caso le cose funzionerebbero correttamente. Il problema vero, infatti, è che il gioco di ruolo è nato come passatempo da svolgersi attorno a un tavolo fra poche persone, non contemporaneamente fra migliaia di (presunti) appassionati. Le ferree limitazioni al numero di partecipanti presenti in tutti i regolamenti cartacei hanno una motivazione ben precisa: non solo tutto funziona molto meglio se i giocatori si conoscono e sanno prima ancora di cominciare cosa vogliono trarre dalle loro sessioni gioco, ma soprattutto con poche persone si rende possibile ed efficace il ruolo del master, ossia di colui che controlla lo svolgersi della storia e ne gestisce tutti gli elementi di contorno. Si obietterà che in un GDR da tavolo il master è una persona, mentre in un MMORPG a fare le veci del master sono le decine di programmatori al lavoro quotidianamente sui server del gioco: è facile ribattere che per quante persone una software house decida di assumere per badare a un MMORPG, non c’è paragone con il rapporto numerico che c’è nel GDR cartaceo, dove un master gestisce la storia interpretata da due o tre persone contemporaneamente e dove per giunta c’è fra tutti questi partecipanti un rapporto diretto e personale. Si obietterà di nuovo: sempre meglio che nel CRPG in solitario, dove di master non ce n’è neanche uno; anche in questo caso è facile ribattere che in realtà le decine di programmatori che hanno realizzato il gioco fanno le veci del master e che queste decine di programmatori avevano in mente, durante lo sviluppo, l’unico giocatore che fruirà il titolo, con un rapporto quindi decisamente più favorevole e, almeno in potenza, maggiormente foriero di esperienze vicine a quella cartacea. Insomma, fare gioco di ruolo ‘vero’ in un MMORPG è impossibile, non tanto per scarsa attitudine dei partecipanti quanto per le limitazioni insite nel genere stesso, che facendo interagire migliaia di persone da tutto il mondo rompe irrimediabilmente quell’atmosfera di intima conoscenza e collaborazione che da sempre caratterizza questo passatempo e che può, al contrario, essere riprodotta anche con certo successo (naturalmente con le ovvie limitazioni del caso) da un gioco pensato per il giocatore singolo. Non si vuole, qui, lanciare anatemi per come la sigla RPG sia usata di sproposito dentro alla sigla MMORPG: basta non eccedere in letteralismo e rendersi conto che la sigla RPG non indica necessariamente presenza di interpretazione, ma solo la presenza di un un personaggio personalizzabile con cui giocare. Quello che si vuole far emergere, piuttosto, è che non necessariamente l’interazione con altre persone in carne e ossa può avvicinare il GDR digitale a quello cartaceo, anzi. La questione, come si vede, è molto più complessa, e naturalmente il dibattito resta aperto.