I videogiochi di ruolo. Appunti sulla tesina di Fabio Rose

Un lettore de La Maschera Riposta ha appena presentato una tesina triennale sul tema de I videogiochi di ruolo, citando in un paio di passi anche alcuni brani di questo sito. Qui troverete riflessioni sparse sul lavoro, nonché vari passi del medesimo.

[articolo originariamente pubblicato il 25 luglio 2009]

Parlare in generale del videogioco di ruolo, senza nemmeno una limitazione basata sull’epoca, sulla piattaforma o sul sotto-genere, è una impresa titanica, soprattutto se lo si deve fare in poche pagine. Ci ha provato il prode Fabio Rose (svitrixxx@hotmail.com), laureando in Scienze della Comunicazione all’Università di Bologna, che ha deciso di citare nel suo lavoro anche un paio di passi del nostro articolo Cos’è un gioco di ruolo? Fabio si è messo in contatto con me prima di presentare il suo lavoro per chiedermi il permesso di citarmi; siamo rimasti in contatto e da qualche tempo ho ricevuto la versione completa della sua opera, che mi appresto a commentare in alcune sue parti. Come già detto, è una tesina molto breve (una trentina di pagine) e quindi per forza di cose sintetica, ma ci sono diversi spunti di riflessione interessanti. Il lavoro è suddiviso in due parti: la prima tenta una definizione di videogioco di ruolo (ed è qui che vi sono le citazioni dal nostro sito), la seconda analizza brevemente alcuni prodotti famosi, tra cui Baldur’s GateNeverwinter NightsOblivion e Fallout 3.

1. La definizione di gioco di ruolo
Fabio descrive l’essenza del GdR partendo dalla controparte cartacea e ponendo l’attenzione sulla creazione e gestione di personaggi immaginari quale centro nodale dell’esperienza. Ecco un primo passo:

Fondamentale in tutti i gdr è la personalizzazione del personaggio: più si fa ‘esperienza’ più si avanza di livello, cioè si distribuiscono una serie di punti aggiuntivi alle varie caratteristiche e abilità; ecco che c’è una specie di ‘culto del personaggio’, lo si vuole sempre più forte. La definizione che viene data da Viero nel suo sito La maschera riposta parte proprio dal personaggio:

“..è gioco di ruolo qualunque gioco in cui uno o più partecipanti assumono i panni di un personaggio immaginario (o anche di un piccolo gruppo di personaggi immaginari) e ne gestiscono la caratterizzazione ..[..].. Questa definizione, come si vede, prescinde da qualsiasi valutazione sugli elementi che dovrebbero caratterizzare lo svolgimento concreto di un gioco di ruolo: che vi siano più combattimenti o più dialoghi non ha la minima importanza, finché c’è un giocatore che gestisce un personaggio immaginario diversamente plasmabile all’interno di un mondo plausibile.”

”Assumere i panni” non significa solo far muovere e combattere il proprio personaggio. Il “ruolo” è una vera e propria interpretazione che prevede comportamenti. Le storie dei GdR mettono sempre chi gioca davanti a scelte che andranno a delineare, anche lì con punteggi, le tendenze caratteriali del personaggio; spesso molti giocatori tendono a trasmettergli quello che loro farebbero veramente nella vita reale, altre volte invece si calano in altre ‘parti’ (“il supercattivo che non lascia superstiti” oppure “l’impavido difensore dei deboli”).

Una prima osservazione è che non necessariamente la centralità della personalizzazione del personaggio porta al ‘culto’ del medesimo, come sembra suggerire la tesina. Questo assunto postulerebbe l’evolversi di ogni GdR in gioco basato sul cosiddetto power-playing, ossia sul potenziamento progressivo del personaggio a scapito della coerenza interpretativa. Il personaggio è il centro del GdR e il suo potenziamento la conseguenza più logica delle sue esperienze vissute nel gioco, ma non va dimenticato che personalizzazione non significa automaticamente potenziamento.
In seguito, la tesina si occupa dell’importante tematica della scissione tra giocatore e personaggio:

Il meccanismo di sdoppiamento nei GdR è forse ancor più evidente che in altri tipi di giochi da tavolo per via del suo stesso funzionamento. All’inizio di una partita, se già non lo si è fatto in una precedente, si deve costruire un personaggio attraverso una serie di caratteristiche e parametri che il gioco mette a disposizione. La proiezione del giocatore a livello 0, emersa dalle analisi condotte su alcuni tipi di giochi, è qui esplicitata dalla prima fase del gioco. C’è la richiesta esplicita iniziale di uno sdoppiamento, una dichiarazione al giocatore del tipo: “scegli chi impersonerai durante la tua partita”. Questa scissione palese tra i due ruoli è quello che può permettere un’acquisizione di abiti interpretativi anche da ‘assassino’ da parte di un giocatore senza che si debba pensare a qualche collegamento con quelli che adotta fuori dalla partita. Si evidenzia chiaramente una delle caratteristiche proprie dell’attività ludica: il suo carattere situato e separato. “…gli abiti interpretativi appresi e assunti dal giocatore tendono a rimanere attivi esclusivamente all’interno della pratica ludica stessa.” (Meneghelli, 2009, pag. 71)

Fin qui niente da dire: è esattamente quanto affermiamo anche noi nell’articolo Cos’è un gioco di ruolo? Ma, nel prosieguo, l’autore suggerisce che forse questa separazione è più teorica che reale:

Ma in realtà quando si parla di pratiche legate all’attività umana si sa che le cose non vanno mai in una stessa direzione in modo assoluto. “Ciò non toglie che la reiterazione e la circolazione di tali abiti interpretativi all’interno di una porzione più o meno ampia di semiosfera possano portare a interessanti ricadute a livello macro” (ivi).

Ancora più inquietante è la nota collegata al paragrafo appena citato:

Interessante è notare a tal proposito come spesso le credenze comuni possano rispecchiare, magari anche in modo grossolano e pregiudizioso, alcuni tratti di fenomeni del genere. Il classico giocatore di carte incallito e vincente viene associato, anche al di fuori di una partita, a dei tratti caratteriali, come ‘calcolatore’, come avesse un tipo di saggezza legata a doppio filo con furbizia, pazienza e freddezza. Il giocatore di ruolo viene invece visto da alcuni come un ‘nerd’ sempre immerso in altri mondi, che sta rinchiuso con gli altri suoi simili a trafficare con giochetti, in un immaginario in cui rientrano anche Magic: The Gathering e Warhammer, pratiche ludiche molto differenti ma che hanno in comune il ‘vivere’ in mondi inventati.

Attenzione: qui mi pare che l’autore faccia confusione tra piani diversi. E’ vero che la reiterazione di un comportamento può avere conseguenze su chi ne è protagonista (anzi, di solito è esattamente quello che succede) e che quindi è possibile tracciare un profilo psicologico-comportamentale del giocatore di ruolo ‘medio’, ma questo non significa che ci sia qualsivoglia legame tra ciò che viene interpretato e ciò che si può/deve essere nella vita reale. In altri termini: il comportamento che può condizionare il suo fautore è “interpretare”, non “interpretare l’assassino” (o chi per lui). L’interpretazione di ruolo che avviene in un contesto ludico ha procedure similari indipendentemente dalla sua salienza: si adoperano gli stessi accorgimenti, o accorgimenti quasi identici, per interpretare un santo come un mascalzone. E’ la forma a condizionare il fruitore, molto più del contenuto. Naturalmente è un tema aperto, che qui accenniamo solamente, magari per stimolare qualche riflessione nel lettore.
In che modo si può organizzare una sessione di interpretazione di ruolo? L’autore della tesina sembra abbracciare la nostra divisione tra story-driven e world-driven:

Indagando sui metodi con cui il master organizza le sessioni di gioco si possono delineare due tipi ideali di partita che si ricollegano alla distinzione operata da Caillois (1967) tra paidia e ludus. Alcune partite possono essere impostate su una struttura narrativa forte, che vede il giocatore spesso costretto a fare i conti con eventi predeterminati (anche se vi sarà sempre una certa libertà di scelta sul modo di affrontarli). “Altri master hanno un approccio del tutto diverso di fronte alla preparazione di una sessione di gioco: non costruiscono una storia dettagliata fin da principio ma un semplice canovaccio che di solito prevede un punto di partenza e un punto di arrivo, o meglio uno scopo finale da raggiungere (liberare un prigioniero, sconfiggere una creatura, impadronirsi di un tesoro); dopodichè preparano con accuratezza le ambientazioni e lasciano che i personaggi giocanti vi scorrazzino dentro” (Viero, da La maschera riposta). Questo succede anche per quanto riguarda le versioni videoludiche dei GdR. La blasonata serie Final Fantasy, ad esempio, pur presentando molte caratteristiche che consentono ai titoli che la compongono di entrare in pieno tra il genere dei gdr, può essere pensata come un ‘film interattivo’ se paragonata a GdR come Baldur’s Gate o Neverwinter Nights, che portano sullo schermo un ‘pezzo’ del mondo e delle regole di D&D e che presentano una struttura narrativa molto più flessibile.

In realtà Neverwinter Nights è un ottimo esempio di GdR story-driven, anche se lo è in modo molto diverso da come lo sono i prodotti orientali come Final Fantasy. L’elemento di riflessione più interessante contenente in questo brano è comunque il riferimento alla suddivisione, classica in semiologia e in estetica, tra paidia e ludus, che viene in qualche modo affiancata a quella tra GdR story-driven e GdR world-driven. Forse è il caso di dare qualche chiarimento ai profani. Roger Caillois è un celebre scrittore, filosofo e semiologo francese, che nel suo saggio Il gioco e gli uomini (pubblicato in edizione italiana nel 1981) tenta di costruire una estetica sistematica dell’evento ludico. Nell’opera, Caillois effettua, tra le altre cose, la suddivisione tra quattro categorie di giochi, chiamati con evocativi nomi tratti dalle lingue antiche: Agon (i giochi di competizione, come le gare o gli sport), Alea (i giochi governati dalla pura sorte, come la lotteria), Mimicry (i giochi di interpretazione e finzione, categoria a cui appartengono i GdR) e Ilinx (i giochi di vertigine, come le montagne russe). Sempre nella stessa opera, Caillois suddivide la potenza del gioco in due ambiti: la paidia, intesa come improvvisazione e spensieratezza, tipica dei bambini, e il ludus, inteso come gioco regolamentato, tipico degli appassionati; in ogni categoria di gioco si può individuare, secondo Caillois, il passaggio tra paidia e ludus. La cosa più interessante che il semiologo francese sottolinea è il fatto che il ludus, paradossalmente, limita la paidia ma al contempo la arricchisce, spingendo le dinamiche del gioco verso i lidi più fruttuosi, secondo la classica aporia di Rousseau, che affermava: “bisogna costringere l’uomo a essere libero”. Sostenere che, nell’ambito del GdR, il passaggio da paidia a ludus avvenga col passaggio da gioco world-driven a gioco story-driven è indubbiamente ardito e affascinante e per quanto mi riguarda costituisce l’idea più originale del lavoro di Fabio. Il paradosso di cui sopra, infatti, si ripete nel nostro passatempo preferito forse a un livello ancora più intricato. Concepire e realizzare un gioco world-driven è infatti molto più complicato che non realizzare un gioco story-driven, ma al contempo possiamo sostenere senza paura di essere smentiti che le emozioni più forti e la maggiore raffinatezza espressiva sono sempre stati veicolati dai giochi story-driven (vedi su tutti l’eclatante esempio di Planescape: Torment). In altri termini: come può essere conveniente sostituire all’anarchico gioco infantile la regolata esperienza della competizione ‘adulta’, meno libera ma anche più ricca di emozioni e sfaccettature, così può essere conveniente rinunciare alla libertà di esplorare ogni anfratto di un certo mondo immaginario per poter godere della magnifica storia approntata, dentro di esso, da un grande sceneggiatore.
Dopo aver ribadito il concetto chiarendo più volte la differenza tra GdR orientali e occidentali (qui sarebbe stata adeguata una riflessione sull’avvicinamento progressivo tra le due filosofie che certi prodotti sembrano mostrare, vedi per esempio Mass Effect), l’autore tenta di delineare altre caratteristiche distintive del GdR, sottolineando che comunque il videogioco è un testo “sincretico”, cioè riunente al suo interno vari mezzi di comunicazione, e che quindi meriterebbe una analisi più approfondita. Per trovare il bandolo della matassa, l’autore adopera il metodo sperimentale, raccontando cosa si fa concretamente in un GdR preso a modello, il vecchio Akalabeth di Richard Garriott. Anche attraverso altri esempi, come Neverwinter Nights, si mette in evidenza come l’azione-base in un GdR sia applicare azioni su elementi, quasi sempre attraverso una protesi, ossia un mezzo per far interagire fisicamente, anche se solo a livello virtuale, il giocatore con il mondo. Si tratta di definizioni a mio avviso eccessivamente generiche, che potrebbero essere applicate a qualunque videogioco e non solamente al genere dei GdR.

2. Naturalismo videoludico: parliamo di Oblivion o di Gothic?
Il primo tema affrontato, in relazione ancora ad Akalabeth, è la questione dell’aumento progressivo dell’iconizzazione, prodotto diretto degli sviluppi della tecnologia. Ecco il passo relativo:

Quello che oggi un videogiocatore può associare all’immagine di un “mago nero” è quello che ha visto nel Signore degli Anelli o affini, è ciò che ha letto in un fumetto o è il mostro che ha sconfitto in Neverwinter. Ciò non vuol dire che giocando ad Akalabeth non ci si possa divertire perché sembra tutto finto, perché la pratica ludica non è soltanto godere della rappresentazione visiva (anzi); significa invece che è cambiato il grado di iconizzazione con cui si creano e si recepiscono delle rappresentazioni, e la possibilità di pertinentizzare sempre più tratti visivi afferenti alla rappresentazione può diventare un ulteriore elemento che favorisce il coinvolgimento della pratica ludica. Parliamo, con Meneghelli (2009, pag. 137), del “fenomeno di iconizzazione (…) legato alla densità di elementi figurativi che ne contraddistinguono la rappresentazione. (…) Il dibattito sull’iconismo”, invece, si rivolge “alla problematica della pertinentizzazione di un livello referenziale extra-semiotico”, cioè ciò che prima dicevamo “a livello mitico”. Continua Meneghelli (ivi.):

L’ultimo aspetto rinvia invece al problema della percezione e degli stimoli surrogati (Eco, 1997) e evidenzia come i criteri secondo cui consideriamo un’immagine più iconica derivano spesso da concezioni culturali o meglio da abitudini percettive; l’alta definizione e la tridimensionalità delle immagini sono diventate per molti videogiocatori (soprattutto per i così detti hard gamers) delle condizioni necessarie per la creazione di un effetto di realtà.

Il grado di iconizzazione dei mondi rappresentati su schermo è andato molto aumentando: per rendersene conto basta dare un’occhiata alla carrellata di immagini in ordine cronologico presenti in questo scritto. Le capacità di calcolo dei computer aumentano e, di riflesso, l’elemento della complessificazione visiva è stato fondamentale in tutta l’evoluzione dei videogiochi. Ed essendo un elemento di un sistema più ampio, è anche grazie ad esso che le grammatiche dei videogiochi hanno avuto la possibilità di espandersi così. Poter di creare mondi sempre più grandi e dettagliati non solo procura un effetto più appagante per il giocatore, ma influisce molto sugli altri piani dell’attività strutturante del videogioco.

In alcuni videogiochi il dettaglio di una certa superficie coperta da una certa texture può avere una funzione nel gioco: camminare sul pagliericcio può far produrre più rumore alla protesi del giocatore, che può essere più facilmente scovata dal nemico. Nei giochi di ruolo più moderni le armi hanno una diversa “consistenza”, vengono figurativizzate con molti tratti, alcuni dei quali diventano indici delle sue speciali proprietà: in Neverwinter Nights 2 le armi elettriche emanano affettivamente delle scintille dalla lama, e gli abiti che indossano i personaggi sono effettivamente visibili sulla loro pelle. Anche lo scopo di una missione può acquistare più ‘consistenza’ se l’oggetto che si deve recuperare è ora un pezzo effettivo del mondo di gioco e non un simbolo in un inventario. Oblivion non potrebbe procurare un così grande effetto di immersione se il motore grafico non potesse gestire un mondo così grande e così particolareggiato.

E’ proprio su Oblivion che si concentra una parte estesa di questo secondo capitolo:

La saga di The Elder Scrolls è composta da quattro episodi progettati e creati dalla Bethesda Softworks. Fin dal primo episodio edito nel 1993 si è deciso di creare un video-gdr con visuale in soggettiva che permettesse al giocatore il più alto grado di libertà possibile. Concentriamo la nostra analisi sull’ultimo episodio della saga, The Elder Scrolls IV: Oblivion, edito nel 2006, e successivamente su quello che può essere considerato per alcuni aspetti il suo sequel anche se ambientato in un mondo diverso, Fallout 3.

In realtà come sappiamo considerare Fallout 3 il seguito di Oblivion è decisamente improprio. L’autore, comunque, sembra voler distinguere la filosofia di Bethesda da quella della gran parte degli altri sviluppatori sulla base della struttura di gioco; in realtà, però, la suddivisione non si basa sul criterio visto sopra (story-driven vs world-driven) ma su altre basi, prima tra tutte l’immersività. Ecco un brano:

Di solito, come già detto, il punto di vista nei GdR è dato da una prospettiva isometrica oppure da una inquadratura dall’alto in un mondo 3D; una protesi principale trasparente e una protesi personaggio tutta interna al mondo del gioco, risultato di un débrayage di secondo livello che non è seguito da un embrayage altrettanto forte. Un tipo di inquadratura oggettiva: è vero che nei nuovi mondi in 3D si può ruotare e zoomare a piacimento, ma lo sguardo nello schermo rimane (per lo più) sempre ancorato al personaggio e agli eventuali compagni di viaggio. Una visuale in soggettiva, invece, pone una relazione enunciazionale, da parte dell’Autore, “io vi faccio guardare, e cioè porto a guardare sia te che lui” (Casetti, 1986), e rende quindi partecipi dello sguardo dell’alter ego videoludico facilitando l’immedesimazione. Questo tipo di visuale, però, è più comune nei cosiddetti “shooter”, giochi in cui la componente prevalente è l’azione pura, in cui c’è un’entità/arma che si muove cercando di uccidere più nemici possibile. Ora invece questo tipo di protesi viene utilizzata da un complesso gioco di ruolo come Oblivion.

Con il termine débrayage si indica, in semiotica, la cancellazione dall’enunciato degli elementi transeunti, connessi al ‘qui-e-ora’; l’embrayage, invece, indica il tentativo di evocazione di tali elementi. Un gioco come Oblivion, che peraltro non è certo stato il primo ad aver introdotto il punto di vista in prima persona nei GdR, si caratterizzerebbe proprio per la sua propensione all’embrayage.

Per certi versi si può dire che in un gioco come Oblivion o come Fallout 3 è stata adottata una strategia testuale di accesso del giocatore al mondo del gioco diametralmente opposta a quella di Final Fantasy VII. Se nel titolo Squaresoft la posizione del giocatore viene continuamente rinegoziata (vedi 2.2), nel gioco Bethesda vi è, nella quasi totalità della durata della partita, un solo punto di ancoraggio, un solo modello di accesso fenomenologico (Meneghelli, 2009) al mondo di gioco installato nel corpo della protesi personaggio. Non avvengono scene in cui l’ego digitale viene inquadrato, tranne nel menù principale (fig. 6b), a meno che non sia il giocatore stesso a deciderlo; esiste la possibilità di adottare una terza persona ma essa non è affatto funzionale per molte delle azioni da compiere, quindi il giocatore tende ad adottarla solo in pochissime occasioni, magari quando vuole una visione più panoramica degli ambienti circostanti. E la protesi non è una semplice entità/arma come in molti sparatutto ma, trattandosi di un gdr, è un centro da cui si irradiano molteplici azioni possibili con cui interagire nel mondo di gioco. Si può pensare a un grande rilievo delle proprietà estensive di questa protesi, a simulare sia il corpo sia la dimensione cognitiva di un uomo che sta dietro lo schermo, le vere percezioni e azioni di un‘ entità dalle caratteristiche associabili all’uomo.

Il fatto che nei titoli in prima persona vi sia una prevalenza di un certo accesso fenomenologico (o addirittura un solo accesso) è indubbiamente interessante e meriterebbe approfondimento maggiore. La maggiore inconsistenza della tesi dell’autore, secondo me, è che è stato scelto come esempio il titolo sbagliato. In realtà in Oblivion il débrayage o, più semplicemente, l’astrazione non rappresentativa è molto presente: basti pensare al meccanismo di persuasione, piuttosto che alla scarsità di animazioni (vedi i metodi adoperati per leggere un libro o creare una pozione, tutti astratti e completamente staccati dalla rappresentazione visiva del personaggio). Un gioco che avrebbe incarnato alla perfezione quel naturalismo videoludico che secondo Fabio è incarnato da Oblivion esiste e si chiama Gothic: lì, davvero, praticamente ogni azione (dallo scassinamento all’arrostire la carne o al leggere un libro) viene associato a una raffigurazione visiva coerente con il mondo di gioco. Solo che la serie Gothic, nonostante le apparenze, mantiene una identità ancorata al modello story-driven, anche perché il suo mondo è talmente essenziale nei suoi lineamenti da non poter reggere sulle proprie spalle alcunché. Insomma, è vero che Oblivion e la sua serie si distaccano dal resto della produzione, ma non per il motivo indicato dall’autore. Si consideri anche questo passo:

Anche per i personaggi che popolano il mondo di Oblivion è evidente lo sforzo fatto per un effetto di verosimiglianza. Le relazioni che si hanno con i PNG sono, in genere, di tipo contrattuale: si configurano come una sorta di adiuvanti o destinanti locali che guidano e sanzionano le azioni del protagonista o le sue richieste attraverso le loro indicazioni. Ma sembrano anch’essi avere dei propri programmi narrativi da portare a termine dietro a quello che c’è davanti agli occhi del giocatore, dei propri scopi in qualche maniera personali. Si è cercato il più possibile di caratterizzarli uno a uno, dando quasi a tutti dei nomi propri, una voce, un aspetto e dei tratti comportamentali diversi l’uno dall’altro. É stato introdotto un sistema per cui ogni personaggio compie delle diverse azioni durante la giornata, si sposta, discute con gli altri, dorme etc. Anche se ci si rende conto che i vari personaggi fanno le stesse cose tutti i giorni e osservando una conversazione altrui essa ci appare comunque molto artefatta, questo meccanismo di gestione del tempo dei personaggi modifica direttamente il fare del giocatore e del suo ego. Per esempio, un ladro deve agire nelle ore notturne, quando il padrone di casa o del negozio dorme, oppure può essere a conoscenza del fatto che in un certo orario è fuori di casa; dei modi di agire da ‘vero’ ladro, insomma.

La IA dei NPC così come viene descritta qui è stata introdotta proprio dal primo episodio della serie Gothic, non certo da Oblivion (la cui Radiant AI è anzi un punto debole nell’insieme del prodotto). Sulle riflessioni sull’imminenza del naturalismo videoludico si conclude la tesina. A parte ciò che abbiamo detto fin’ora, un altro pensiero viene alla mente: siamo sicuri che una simile evoluzione sia auspicabile? Alcuni elementi di embrayage, alla fine, non sono altro che un annullamento della scissione tra giocatore e personaggio: pensiamo, ad esempio, al secondo me orribile metodo di scassinamento delle serrature presente nei primi due Gothic. Il gioco, in fondo, è una attività astratta basata su meccanismi estetici e razionali: fino a che punto può spingersi l’immedesimazione senza giungere a concretizzarsi in un tipo di attività completamente diversa dal giocare di ruolo? Il dibattito è aperto.


[Aggiornamento del 25 settembre 2009] L’autore della tesina, Fabio Rose, mi ha inviato alcune sue osservazioni dedicate ai miei commenti. Le pubblichiamo volentieri:


Nel punto in cui si scrive sulla mia inquietante considerazione vorrei precisare una cosa: non intendevo considerare le pratiche di immedesimazione in diversi ruoli dal punto di vista di chi gioca, a livello psicologico del singolo, ma, come si evince facilmente leggendo il paragrafo, intendevo alcuni pregiudizi che possono, a volte, insinuarsi nei pensieri di alcune persone, e l’attenzione a questo tipo di fenomeni è tipica della sociosemiotica. Quello che Mosè scrive sul fatto che sia la forma più che il contenuto ad influenzare le modalità di approccio nell’interpretare un ruolo è giustissima e tocca un argomento molto interessante, ma è poco pertinente con ciò che scrivevo io.

Ciò che Mosè chiama “definizioni generiche”, riferendosi al concetto di protesi e alla mia distinzione azioni/elementi, sono per me degli strumenti con cui può si può impostare un’analisi testuale. Si, sono strumenti che assolutamente si adattano alla descrizione di tutti i videogiochi. Inventare dei nuovi strumenti semiotici adattabili al solo contesto dei gdr sarebbe impresa ardua, probabilmente insensata. Uno strumento semiotico si usa per una molteplicità di testi, spesso per tipi di testi molto diversi, e anzi la validità della sua stessa esistenza è comprovata solo dalle continue applicazioni su oggetti diversi. Addirittura, quando inizio a scrivere di azioni ed elementi preciso il fatto che secondo me si tratta di una struttura d’interazione base che si può applicare a qualsiasi contesto in cui ci si trova a comunicare con una macchina.

Mi sembrava inutile precisare “l’avvicinamento progressivo tra le due filosofie che certi prodotti sembrano mostrare”, visto che la distinzione tra video-gdr orientali e occidentali mi è servita solo come punto di partenza per spiegare poi come in realtà secondo me andrebbe fatta una distinzione di generi più accurata, cioè facendo emergere degli elementi fondamentali del testo-video-gdr che si possono confrontare tra diversi videogiochi. Così non si arriva a pensare a delle categorie distintive assolute: la distinzione tra le correnti orientale ed occidentale, come si capisce, penso, leggendo la tesina, è solo un inzio, che serve per arrivare a capire meglio la distinzione tra la distinzione tra due polarità che Mosè chiama story-driven e world-driven. Sono solo due paradigmi tra cui poi i vari video-gdr si possono collocare.

Non mi sembra “decisamente improprio” scrivere cautamente: “quello che può essere considerato per alcuni aspetti il suo sequel anche se ambientato in un mondo diverso”, con riferimento a Oblivion e Fallout 3. E’ vero che, per alcuni aspetti, Fallout 3 può essere considerato in un certo senso il sequel di Oblivion?? Rispondere negativamente non mi suonerebbe molto sensato. Non mi sembra nemmeno il caso di elencarli, questi elementi, perché li conosciamo già.

Usare i concetti débrayage ed embrayage richiede una certa attenzione. Partendo dalla definizione data da Mosè -”Con il termine débrayage si indica, in semiotica, la cancellazione dall’enunciato degli elementi transeunti, connessi al ‘qui-e-ora’; l’embrayage, invece, indica il tentativo di evocazione di tali elementi.”- si può incorrere in degli errori abbastanza grossolani: non ha assolutamente senso parlare di “tendenza all’embrayage”. I due termini si usano per specificare i passaggi, su vari livelli, che avvengono dal distanziamento iniziale dal qui-ora dell’enunciazione, e solo per quel primo passaggio vale la definizione data da Mosè. Il débrayage non c’entra niente con “l’astrazione non rappresentativa”; il débrayage è un movimento che la semiotica individua in qualsiasi espressione testuale: in tutti i testi c’è almeno un débrayage, distanziamento tra ciò che c’è nel testo e dalla situazione enunciazionale dell’autore, e poi successivamente sono spesso presenti dei distanziamenti successivi (viene facile il paragone con le bambole cinesi). La tendenza di cui scrivo io su Oblivion è quella di nascondere il più possibile le tracce dell’ enunciazione, e nel fare ciò il gioco cerca il più possibile di stabilizzare l’andirivieni di livelli enunciativi che avvengono attraverso vari débrayage ed embrayage. Penso di non aver formulato nessuna “tesi su Oblivion”, ho soltanto spiegato come questo gioco tende a creare un effetto di immedesimazione attraverso una strategia che può ricordare quella usata da testi naturalisti di vario tipo, dal romanzo ai testi teatrali, cioè quella di cercare di mettere in scena la realtà nuda; per fare ciò l’autore cerca di cancellare il più possibile le sue tracce nel testo: ad esempio niente narratori, un punto di vista stabile, ci si rivolge il meno possibile al pubblico. Oblivion tenta di andare in questa direzione, naturalmente non esaurisce -non potrebbe esaurire- le possibilità offerte dal reale, non potrebbe mai portare la realtà vera su schermo (e qui dei passi avanti potrebbero assere fatti, ad esempio, come scrive Mosè riguardo alle animazioni non presenti, in Oblivion, di azioni come “prendere un libro” o “scassinare una serratura). Dicendo “quel naturalismo videoludico che secondo Fabio è incarnato da Oblivion” non penso si rispecchi il mio cauto paragone -evidenziato peraltro dal punto interrogativo nel titolo del paragrafo- con le tendenze naturalistiche inerenti alle modalità di costruzione testuale. Purtroppo non ho ancora avuto modo di giocare a Gothic ma ora Mosè ha stuzzicato la mia curiosità.

L’espressione “È stato introdotto un sistema per cui ogni personaggio compie delle diverse azioni durante la giornata..” non è felicissima ma, sapendo anche di non avere troppa conoscenza storica nel campo videogiochi, cioè di non avere un repertorio troppo ampio dei titoli che ho giocato, non ho proprio pensato al fatto che Oblivion sia stato il primo ad apportarla. Né ho mai scritto che questo sistema renda Oblivion chissà come realistico -basta continuare a leggere : “Anche se ci si rende conto che i vari personaggi fanno le stesse cose tutti i giorni e osservando una conversazione altrui essa ci appare comunque molto artefatta, questo meccanismo di gestione del tempo dei personaggi modifica direttamente il fare del giocatore e del suo ego.” Ciò che evidenzio è che il fare del giocatore è direttamente condizionato da questa gestione del tempo, che non è comune nei classici gdr.

Di “riflessioni sull’imminenza del naturalismo videoludico” io non ho mai scritto: anzi nella conclusione della tesina scrivo:

È evidente in alcuni ultimi videogiochi di ruolo, ma anche in molte produzioni videoludiche appartenenti a generi differenti, un tendenza a creare delle rappresentazioni che si avvicinino il più possibile alla realtà. Abbiamo visto come alcuni degli ultimi video-gdr in soggettiva riescano a creare delle esperienze interattive molto coinvolgenti, quasi da farci sentire proprio lì, in un mondo inventato, attraverso tutta una serie di meccanismi che con la semiotica riusciamo ad evidenziare. Ciò non vuole assolutamente dire che è questa l’unica direzione in cui queste produzioni si evolveranno nel futuro. Come in tutti gli altri campi di produzione testuale e soprattutto per i videogames, c’è un processo di continua appropriazione di nuovi strumenti, e spesso con essi si cerca di riprodurre il più fedelmente possibile le dinamiche proprie del reale. Ma questa è solo una tra le tante strade percorribili, e anzi la storia sembra suggerirci che quando un’arte diventa così padrona dei suoi strumenti da riuscire a riprodurre più o meno fedelmente la realtà, successivamente si ripiega il più possibile su quegli artifizi che la realtà tentano di sconvolgerla, spesso sfociando in delle rappresentazioni che si interrogano sullo statuto dell’arte stessa.

Mi è piaciuto molto l’approfondimento sulle considerazioni del Callois. Non mi è chiara, infine, questa considerazione di Mosè: “Alcuni elementi di embrayage, alla fine, non sono altro che un annullamento della scissione tra giocatore e personaggio: pensiamo, ad esempio, al secondo me orribile metodo di scassinamento delle serrature presente nei primi due Gothic.” “Alcuni elementi di embrayage”, che anche di per sé è un’ espressione da chiarire, non mi sembra molto legata a quell’ “annullamento della scissione tra giocatore e personaggio”, annullamento a cui tende, per esempio, Oblivion, che si ricerca attraverso certi meccanismi, alcuni dei quali ricordati prima(eleminare le tracce dell’enunciazione, stabilizzare l’andirivieni di débrayage / embrayage). Ci si chiede ancora, poi, come questo possa inerire all’ “orribile metodo di scassinamento delle serrature presente nei primi due Gothic.”

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