Drakensang: The River of Time

Il secondo capitolo della saga di Drakensang arriva sui nostri computer accompagnato da aspettative importanti: ce l’avranno fatta i ragazzi tedeschi di Radon Labs a superare i limiti della loro opera prima e a sfornare un prodotto in grado di competere con i ‘mostri sacri’?

[articolo originariamente pubblicato l’8 agosto 2010]

1. Promesse mantenute
Più o meno un anno fa La maschera riposta recensiva Drakensang, gioco di ruolo completato in realtà nel 2008 ma giunto con molto mesi di ritardo sul mercato italiano, peraltro con l’ottima curatela di FX Interactive. Fu anche grazie al prezzo aggressivo che questo titolo monopolizzò per diverso tempo le attenzioni degli appassionati, almeno in Italia, ma non mancarono certo motivazioni più profonde a giustificare questo entusiasmo: Drakensang, realizzato dallo studio tedesco Radon Labs, fondato a Berlino nel 1995, dava nuova linfa a uno schema di gioco molto amato da uno ‘zoccolo duro’ di appassionati, e per giunta lo faceva utilizzando un regolamento molto popolare a livello cartaceo ma quasi per nulla sfruttato in ambito digitale. Lo schema di gioco a cui alludiamo è quello a cui ci si riferisce quando si parla di “GdR classico”: visuale isometrica dall’alto, forte presenza di statistiche, possibilità di affiancare al personaggio principale un party più o meno numeroso.
La realizzazione del prodotto non lasciava spazio a molte critiche per quel che riguardava la giocabilità, ma Drakensang aveva comunque dei limiti piuttosto evidenti: un comparto narrativo debole, una campagna eccessivamente lineare (caratteristica che emergeva soprattutto in connessione con la scelta, assai poco popolare, di consentire l’accesso alle aree di gioco solo in corrispondenza della fase della trama cui erano legate), personaggi piatti e stereotipati. In generale, quel che si notava era un vistoso dislivello qualitativo tra i meccanismi ludici e i contenuti a cui questi venivano messi a servizio: un problema, se vogliamo, comune a molte produzioni teutoniche, prima tra tutte la serie Gothic/Risen di Piranha Bytes, anche se in quel caso l’inconsistenza narrativa viene in parte colmata dall’abilità nell’evocare atmosfere. Lo sviluppo del seguito di Drakensang, che peraltro sarebbe più corretto chiamare prequel dato che le vicende narrate sono collocate prima di quelle del titolo originale, è stato accompagnato da grande entusiasmo proprio perché gli sviluppatori si sono mostrati assai consapevoli dei limiti della loro opera prima e altrettanto desiderosi di superarli, anche con l’aiuto dei consigli della comunità di appassionati.
Gli annunci promozionali e le anteprime si sono dunque concentrati proprio sulle auspicate novità: un mondo di gioco che rimane sempre aperto all’esplorazione, un maggior peso dato alle abilità pacifiche, comprimari in numero minore ma dalla personalità più approfondita… dopo aver passato decine di ore su Drakensang: The River of Time, però, ci troviamo un po’ in difficoltà. Non possiamo accusare gli autori di non aver effettivamente realizzato quel che avevano promesso, eppure c’è ancora parecchio che non va. O meglio: i miglioramenti ci sono tutti, ma non migliorano abbastanza. Per cercare di essere più chiari, vediamo di scendere nel dettaglio.

2. Racconti attorno al fuoco
Il primo Drakensang cominciava con il protagonista impegnato nella ricerca del suo vecchio amico Ardo, un nobile guerriero residente nella grande città di Ferdok. Subito dopo il tutorial, il nostro alter ego veniva a scoprire che il suo amico era stato assassinato. Le vicende della trama principale ruotavano proprio attorno a questo omicidio: il protagonista veniva aiutato, nelle indagini, da vari personaggi, tra cui il burbero nano Forgrimm, ex guardia del corpo di Ardo, e la spigliata Gladys, figlia del capo della gilda dei ladri Cano. The River of Time è, come abbiamo già accennato, un prequel: nel filmato iniziale si vedono Gladys e Forgrimm in una locanda, presumibilmente a riposo dopo le avventure vissute nel primo capitolo. La conversazione tra i due si incentra quasi subito sulla rievocazione dei bei tempi andati: Forgrimm ricorda le peripezie vissute con Ardo e con Cano, affermando che, assieme a loro, c’era un altro grande avventuriero.
Questi è, naturalmente, il nostro nuovo alter ego: dopo il filmato veniamo infatti introdotti alla schermata di creazione del personaggio principale, che è rimasta in grandissima parte identica a quella già vista nel primo capitolo. Prima ricordavamo che Drakensang ha, tra i suoi indubbi meriti, l’aver dato nuova vita, almeno a livello digitale, a un regolamento molto noto e apprezzato in ambito cartaceo: si tratta di Uno Sguardo nel Buio, che chiaramente viene riproposto tal quale anche in The River of Time. A dire il vero, qualche piccola novità c’è: sono state introdotte due nuove classi di personaggi, il nano geodeta e il nordico barbaro. La scelta di razze e classi era e resta piuttosto ampia, anche se il regolamento stesso tende a presentare degli archetipi più che lasciare che il giocatore crei da zero il suo avventuriero ideale.
Per chi vuole sfruttare al massimo i punti abilità iniziali, resta a disposizione la modalità “esperto”, che consente di distribuire suddetti punti liberamente; le abilità già conosciute dal personaggio restano comunque dipendenti dalla sua classe di appartenenza. Le novità più appariscenti in fase di creazione dell’eroe riguardano, comunque, l’aspetto ‘cosmetico’: sono state implementate nuove personalizzazioni sia del volto sia della corporatura del protagonista, che peraltro non possono né vogliono competere con i sistemi di generazione dei volti presenti in titoli più aperti, come per esempio Oblivion. Prima di tuffarci nel gioco vero e proprio, rivediamo velocemente i cardini del regolamento su cui è basato lo sviluppo dei personaggi.

3. Ripassiamo!
Uno dei tratti che caratterizza maggiormente Uno Sguardo nel Buio è il peculiare sistema di avanzamento di livello degli eroi. In questo regolamento, all’uccisione di nemici e al completamento di missioni corrisponde l’ottenimento da parte dei personaggi di identiche quantità di due distinti ‘premi’ numerici, i “punti esperienza” e i “punti avventura”. I primi possono essere spesi in qualsiasi momento, anche immediatamente dopo averli guadagnati, per aumentare abilità e caratteristiche del personaggio; i secondi, invece, non possono essere utilizzati ma servono a tenere traccia dell’avanzamento di livello, che determina a sua volta il tetto massimo a cui possono giungere abilità e caratteristiche.
Si tratta di un sistema forse più complicato da spiegare che da utilizzare: il suo merito principale, come già dicemmo a suo tempo, è quello di eliminare quella fastidiosa sensazione di crescita ‘a scalini’, conferendo allo sviluppo dei personaggi un andamento più costante e sinuoso e consentendo interventi sistematici sulle capacità che risultino di volta in volta utili durante una determinata missione o nell’ambito di un certo contesto. I punti esperienza vengono utilizzati per migliorare sia le caratteristiche sia le abilità. Le prime, comuni a tutti i personaggi, sono otto: Coraggio, Intelligenza, Intuito e Carisma sono i tratti psicologici; Destrezza, Agilità, Costituzione e Forza sono i tratti fisici. Le seconde si possono suddividere in passive e attive: tra le prime vi sono, oltre alle specializzazioni nelle armi, tutto l’assortimento di abilità ‘pacifiche’ già viste nel primo capitolo, come Natura Umana, Etichetta, Botanica, Sopravvivenza eccetera; tra le seconde, invece, vanno annoverate sia le mosse speciali legate al combattimento sia gli incantesimi.
Ciascun personaggio parte con un set di abilità già disponibili: per sbloccare le altre occorre non solo una adeguata quantità di punti esperienza ma anche l’intervento di un addestratore. Ogni capacità è legata a un determinato valore di punti esperienza necessari per essere migliorata: più si avanza, ovviamente, più punti sono necessari, anche se vale la regola per cui l’aumento delle caratteristiche di base è sempre l’operazione più ‘costosa’ in assoluto.

4. Arrivano i pirati
All’inizio di The River of Time, il nostro alter ego è un anonimo avventuriero imbarcato su una nave in viaggio lungo il Grande Fiume, nel baronato di Kosh: la meta del viaggio è la città di Nadoret, dove il protagonista deve completare il suo addestramento presso la caserma, la gilda dei ladri o la torre di un mago (a seconda dell’archetipo a cui fa riferimento la sua classe). Il tutorial avviene durante una sosta per la notte prima di giungere in città: alcune semplici missioni consentono al fruitore di prendere confidenza con le modalità di gioco, e già nelle primissime fasi vengono introdotto i co-protagonisti, ossia Ardo, Forgrimm e Cano, imbarcati anonimamente nella stessa nave del protagonista. Il tutorial termina bruscamente con un attacco pirata durante il quale il nostro alter ego perde conoscenza: si risveglierà a Nadoret, dove potrà completare il suo addestramento e si troverà quasi subito invischiato in una importante missione, scoprire l’origine e la causa dei sempre più frequenti attacchi dei pirati lungo il fiume. Ardo, Forgrimm e Cano non si uniscono immediatamente al party: durante le nostre prime esplorazioni di Nadoret saremo accompagnati da altri due avventurieri, una mezzelfa arciera di nome Fayris e un mago di nome Jakoon. Poco dopo averceli fatti conoscere, però, il gioco ci costringe a una scelta brutale: durante un combattimento dovremo decidere quale dei due accompagnare e difendere… e l’altro purtroppo soccomberà.
A quel punto la fase introduttiva termina definitivamente e ci troviamo con quattro potenziali compagni di viaggio: i guerrieri Ardo e Forgrimm, il ladro Cano e uno dei due tra l’arciera Fayris e il mago Jakoon. Dato che il party può arrivare a quattro componenti (più eventuali creature evocate), non si può certo dire che il gioco ci metta a disposizione una grande scelta per quel che riguarda i personaggi arruolabili. In particolare lascia un po’ perplessi il fatto che vi sia un solo mago, per giunta a rischio di morte precoce: se il nostro eroe non segue le vie arcane e Jakoon viene sacrificato, ci troveremo senza la possibilità di specializzare un membro del gruppo nel lancio degli incantesimi. A dire il vero, peraltro, l’aut aut Fayris-Jakoon lascia interdetti per motivi ben più importanti di queste considerazioni pragmatiche: mettere una scelta tanto ‘pesante’ e drammatica nelle prime fasi di gioco, quando l’utente non ha ancora avuto la minima possibilità di prendere confidenza con i personaggi e con le loro abilità, è semplicemente assurdo. Lungi dal conferire al titolo un qualche spessore a livello di pathos, questo snodo narrativo non fa che ribadire una volta di più l’incapacità degli autori di maneggiare con cognizione di causa la costruzione di una storia. E questo ci porta già a tentare di spiegare meglio quel che dicevamo in apertura riguardo ai “miglioramenti che non migliorano”: è inutile cercare di scimmiottare i grandi titoli introducendo bivi drammatici se non si è in grado di padroneggiare i meccanismi narrativi più elementari, perché altrimenti si corre il rischio di banalizzare. Ciò che spesso si dimentica è che non basta fare: bisogna anche fare bene.

5. Sediamoci in riva al fiume
Come suggerito sibillinamente anche dal titolo, in The River of Time il protagonista dell’ambientazione è il Grande Fiume. Dopo aver superato la fase introduttiva, il nostro eroe ottiene il controllo di una nave, la Thalaria, che rimane la sua base d’azione per gran parte dell’avventura. La risoluzione delle missioni prevede continui spostamenti tra le diverse aree che si affacciano sul naviglio e che restano sempre visitabili, anche dopo che hanno svolto il loro ‘ruolo’ all’interno della trama. Forse questa è la variazione più importante e meglio riuscita rispetto al primo Drakensang, che consentiva l’esplorazione delle aree solo sulla base della rigida linearità della missione principale: in The River of Time, invece, le varie località lungo il fiume mantengono elementi di interesse distribuiti in momenti diversi.
Talvolta è curioso ripassare in un certo posto per osservare le conseguenze delle nostre azioni passate; in altre occasioni sarà qualche quest secondaria a spingerci a tornare in un insediamento; alcuni luoghi poi sono totalmente opzionali e si aprono davanti a noi solo per consentirci di soddisfare la nostra voglia di esplorazione. Le diverse aree si concretizzano sotto forma di enormi mappe, al cui ci interno ci si può muovere senza alcun caricamento; man mano che si scoprono nuovi passaggi, vengono attivati punti di teletrasporto che consentono di viaggiare più velocemente nei luoghi già esplorati. Rimangono invece caricati separatamente sia gli interni dei pochi edifici nei quali è consentito l’ingresso (principalmente locande) sia i sotterranei. Il controllo del nostro eroe e dei suoi compagni di viaggio avviene in modo del tutto simile a quanto visto nel primo capitolo: è possibile utilizzare un sistema punta-e-clicca che gestisce tutto con il mouse, oppure muovere con quest’ultimo solo la visuale e spostare il personaggio con i consueti tasti WASD. Purtroppo, continuano a sussistere alcune lievi inconsistenze nel posizionamento dell’inquadratura, soprattutto nelle aree strette, ma nulla che possa inficiare in modo grave la giocabilità. Quando si incontra un elemento interattivo, sia esso un personaggio non giocante o un barile, un clic sinistro del mouse attiva l’azione predefinita.
L’utente meticoloso dovrà fare i conti, durante le sue esplorazioni in The River of Time, con una giocabilità piuttosto lenta e ripetitiva, dovuta soprattutto al fatto che tutti gli scenari sono colmi di casse e barili da rompere e svuotare, pieni principalmente di materie prime da utilizzare durante la creazione artigianale di oggetti: come nel primo capitolo, nessuno avrà da ridire se il nostro personaggio passerà le sue giornate devastando ogni contenitore gli capiti a tiro. Se un personaggio del party ha l’abilità botanica, ci sarà un gran da fare anche per raccogliere tutte le piante e gli arbusti; lo stesso dicasi se uno degli avventurieri è in grado di scuoiare gli animali selvatici caduti sotto i colpi delle nostre lame. Ad aggravare la situazione c’è il fatto che piante e animali si rigenerano ogni volta che torniamo in un’area già visitata; a rendere tutto più ‘leggero’ c’è però il fatto che dedicarsi all’artigianato (e quindi raccogliere le materie prime necessarie) è uno sfizio a sé stante, incapace di mutare in modo sostanziale le sorti delle nostre avventure. L’accumulo degli oggetti non preziosi sparsi per le mappe rappresenta dunque uno ‘strato’ di giocabilità del tutto opzionale, che può essere tralasciato senza timore alcuno da chi preferisce restare concentrato sulla trama e sulle missioni.

6. I combattimenti
Anche per quel che riguarda il comparto bellico The River of Time resta assai simile al primo Drakensang, dunque in questa sede ci limiteremo a ‘ripassare’ quanto già spiegato in profondità nella recensione del capitolo precedente. Quando il nostro gruppo di avventurieri incontra una creatura ostile, il gioco entra in pausa per consentirci di mettere a punto la strategia migliore. Selezionando un personaggio e cliccando su un nemico, imposteremo l’attacco normale con l’arma equipaggiata. Se vorremo adoperare un incantesimo o un attacco speciale, sarà necessario cliccare sull’apposita icona nella barra in basso, precedentemente impostata a dovere, e poi sul nemico o sull’area interessata.
Per attivare le abilità di combattimento, è necessario possedere sufficiente adrenalina; per le magie, d’altro canto, occorre una abbondante scorta di energia astrale, il corrispettivo del mana. Entrambi questi valori si ricaricano col tempo, anche nel corso dello scontro; dato che le abilità e gli incantesimi non hanno un tempo di ‘recupero’, è possibile attivarli ripetutamente se l’eroe ha riserve sufficienti della relativa energia. Per rendere più interessanti le classi ‘ladresche’, Radon Labs ha ben pensato di introdurre nuove abilità a esse dedicate, i cosiddetti “miracoli di Phex” (quest’ultima è la divinità che sovrintende alle capacità furtive): si tratta di piccoli incantesimi che non consumano alcuna energia, ma che si possono selezionare solo se non è già attivo un miracolo appartenente allo stesso “cerchio” di quello scelto. Una volta impostate tutte le azioni dei nostri personaggi, basterà disattivare la pausa per veder iniziare il combattimento; naturalmente potremo fermare l’azione in qualunque altro momento per reimpostare la nostra strategia.
Gli scontri procedono a turni simultanei: le creature coinvolte attaccano e si difendono a intervalli regolari, dando ai duelli quel ritmo pausato e vagamente artefatto già visto nel primo Drakensang. I colpi più violenti e le abilità più devastanti possono, oltre che far diminuire drasticamente i punti-vita della vittima, infliggere una o più ferite: le creature muoiono per l’appunto quando esauriscono la riserva di punti-vita, oppure quando ricevono quattro ferite. Purtuttavia, sarà necessario ricaricare solo se cadono a terra tutti i membri del gruppo: basta che ne resti in piedi solo uno per vedere tutti gli altri rialzarsi al termine dello scontro. Chi cade in combattimento, peraltro, sarà segnato da una ferita grave, in grado di menomarne sostanzialmente le abilità e le caratteristiche: per riportare i valori alla norma sarà necessario un potente incantesimo di cura, oppure l’utilizzo di qualche manufatto balsamico in sinergia con l’apposita abilità.
Nei momenti di pace, i punti vita vengono recuperati assai rapidamente dai personaggi, un po’ come in Dragon Age: Origins; ciascun combattimento, dunque, è pensato per esaurire quasi completamente le risorse e le capacità del party, a scapito di qualsiasi tipo di strategia a lungo termine. Non si tratta necessariamente di un difetto, ma solo di una diverso approccio all’elemento bellico, che può piacere o meno. Va sottolineato che anche in The River of Time i nemici non sono regolati sul livello del nostro party: già nelle fasi iniziali di gioco ci potrà capitare di ricevere missioni che non saranno alla nostra portata per parecchie ore, dunque non sarà infrequente, almeno durante la nostra prima partita, battere in ritirata ogni volta che ci renderemo conto di essere di fronte a un nemico ancora troppo potente.

7. Personaggi profondi?
Quando si vuol costruire un prodotto che sia contemporaneamente aperto all’esplorazione libera e non lineare di tante aree diverse ma anche caratterizzato da una trama più sostanziosa di quella di un gioco free-roaming, si deve necessariamente dar vita a una storia segnata da momenti pausati e tranquilli uniti però a periodici eventi epici, capaci di mantenere a livello sufficientemente alto la tensione drammatica che spinge alla prosecuzione della missione. Un ottimo esempio di questo è il primo Baldur’s Gate di Bioware, la cui trama è proprio un esempio da manuale di come si può costruire un intreccio vario e interessante senza per questo chiudere completamente la porta alla libertà rappresentata dall’esplorazione non lineare. Purtroppo, in The River of Time siamo ben lontani da quel risultato, e non solo per le ingenuità narrative di cui abbiamo già parlato all’inizio della recensione.
Si può dire che quasi tutto quel che compone il contenuto dell’opera di Radon Labs è segnato da scarsa convinzione e superficialità: i dialoghi, gli snodi del racconto, le atmosfere che pervadono le diverse aree di gioco, i personaggi. Quest’ultimo elemento, in particolare, lascia parecchio l’amaro in bocca: gli sviluppatori avevano promesso che alla diminuzione del numero dei compagni di viaggio si sarebbe accompagnata un’indagine più approfondita sulla loro personalità, ma nel gioco che abbiamo avuto modo di provare non si trova alcuna realizzazione di questa promessa. I compagni di viaggio, inclusi i tre protagonisti dell’avventura, sono nient’altro che la personificazione di stereotipi: Forgrimm è il nano burbero e ubriacone, Ardo è il guerriero nobile e giusto, Cano è il ladro subdolo e dongiovanni. In ogni momento dell’avventura veniamo messi di fronte alle ovvietà dei loro commenti e dei loro consigli, sempre identici in qualsiasi frangente: Forgrimm suggerirà di caricare a testa bassa, Cano di cercare una via di ingresso nascosta o di usare la persuasione, Ardo di mediare tra queste istanze. In The River of Time succede dunque qualcosa di veramente strano: l’aumento dell’interazione da parte dei compagni di viaggio, sicuramente presente, ha come paradossale effetto una profondità globale minore, dato che il giocatore viene messo continuamente davanti alla sconsolante mancanza di fantasia degli autori. I comprimari di questo gioco sono dunque come intrappolati all’interno di ruoli semplicistici e riduttivi: due aggettivi che peraltro ben si confanno a tutto l’aspetto ‘narrativo’ del gioco. Intendiamoci: succedeva la stessa cosa anche nel primo Drakensang, eppure questo non ci ha impedito di conferirgli un giudizio positivo.
Un videogioco deve anzitutto funzionare come videogioco, e da questo punto di vista The River of Time, come anche il suo predecessore, non ha nulla da rimproverarsi. Però dobbiamo ammettere che, avendo sperimentato con i capolavori Bioware a cosa può arrivare il racconto all’interno del medium videoludico, ci sentiamo di avanzare pretese che vanno un po’ al di là di una ‘semplice’ giocabilità funzionale: diamo ancora a Radon Labs il beneficio dell’esordiente, ma contiamo di trovare qualcosa di più sostanzioso nelle loro prossime produzioni. Sempre se ce ne saranno.

8. Excursus sul presente e sul futuro
In corrispondenza con la pubblicazione in Italia di The River of Time ad opera di FX Interactive, è arrivata una notizia decisamente inaspettata: Radon Labs si è trovata sull’orlo del fallimento, e per sopravvivere non ha potuto far altro che farsi ‘assorbire’ da un’altra compagnia. Qualcuno penserà: sempre meglio della chiusura. Non è detto, perché il gruppo in cui sono confluiti gli autori di Drakensang non ha nulla a che fare con la realizzazione di giochi di ruolo per computer. Si tratta infatti di Bigpoint, specializzata nella creazione di browser game, ossia di giochi leggeri e casual da sperimentare online all’interno del programma normalmente utilizzato per la navigazione. I timori degli appassionati si stanno materializzando ad ogni nuova comparsa di notizie: è già trapelata l’indiscrezione secondo cui un eventuale Drakensang 3 sarà un gioco online. Ad aggiungere scoramento c’è anche il fatto che prima del patatrac Radon Labs si era già messa al lavoro su una espansione per The River of Time, intitolata Phileasson’s Secret. Non ci sono informazioni di prima mano sulla sorte del progetto, anche se alcune voci di corridoio lo danno per confermato: solo il tempo ci dirà se sono fondate o meno.
Rimaniamo in ambito produttivo anche per un’altra considerazione. La maschera riposta normalmente non commenta e non giudica le localizzazioni, dato che da queste parti si preferisce giocare in inglese; The River of Time, però, è molto più facilmente reperibile in versione italiana e dunque anche noi l’abbiamo giocato con la traduzione e il doppiaggio nella nostra lingua. Ebbene, ci tocca dire chiaramente che lo sforzo di FX Interactive, pur commendevole vista la mole di testo e di parlato, non è soddisfacente. La traduzione italiana di The River of Time è incerta, contraddittoria e approssimativa: i termini, inclusi i nomi propri, sono resi in modo sempre diverso, i toni e le espressioni sono spesso arditi e fuori posto, le perifrasi sono quasi sempre talmente poco plausibili da rompere irrimediabilmente la sospensione dell’incredulità. Probabilmente questo risultato è dovuto al fatto che, per rimanere nei tempi contingentati, la produzione ha scelto di dividere la traduzione tra molte persone, che non hanno mai avuto la possibilità di confrontarsi e rendere omogeneo il loro lavoro. Noi qui abbiamo deciso di non dare peso a questo elemento in fase di giudizio, dato che ci interessa valutare il lavoro degli autori e non quello dei traduttori: però ci sembrava giusto segnalarlo. Per chi vuole godersi al massimo il gioco può essere sensato spendere un po’ di più e procurarselo in inglese, o anche direttamente in tedesco se si conosce la lingua.

9. Conclusioni
Se questo articolo vi è sembrato un elenco di terribili difetti, è solo perché gli aspetti positivi, ampiamente presenti e ‘pesanti’, sono gli stessi già visti nel primo capitolo e dunque già analizzati in lungo e in largo nella recensione del medesimo. The River of Time rappresenta, sotto molti punti di vista, un’occasione mancata: gli autori hanno scelto di rivedere alcune loro scelte del passato, ma l’hanno fatto senza mostrare abbastanza coraggio e rimanendo ancorati a quella mediocrità tematica e narrativa che rappresentava il limite maggiore della loro opera prima. Con la chiusura precoce dello studio, il futuro è incerto: la saga di Drakensang continuerà, possibilmente migliorando, oppure è destinata a chiudersi o a mutare completamente? L’ardua sentenza arriverà solo nei prossimi mesi.

Tre pregi di Drakensang: The River of Time Tre difetti di Drakensang: The River of Time
Giocabilità funzionale e collaudata Narrazione e contenuti superficiali e riduttivi
Mondo ampio e liberamente esplorabile Personaggi stereotipati
Grafica e sonoro molto piacevoli e non troppo pesanti Alcune fasi di gioco tendono a essere lente e tediose

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